sabato 8 dicembre 2012

La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino) estratti

La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 18 | Posizione 258-270 |

R. Anzitutto la classe capitalistica transnazionale fruisce di un poderoso collante ideologico che è sostenuto da decine di "serbatoi del pensiero", operanti soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Essa possiede inoltre un grosso peso politico. Le leggi in tema di politiche fiscali, de-regolazione della finanza, riforme del mercato del lavoro, privatizzazione di beni comuni - dall'acqua ai trasporti pubblici - emanate in diversi paesi dagli anni Ottanta in poi, e che oggi il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca centrale europea (Bce) e la Commissione europea (Ce) vorrebbero imporre senza eccezioni a tutti i membri dell'Unione europea (Ue), o quanto meno a quelli dell'eurozona, sono state una parte essenziale della controffensiva a cui mi riferivo prima. Tale controffensiva non avrebbe mai avuto il successo che ha avuto se non avesse potuto prender forma di e appoggiarsi su leggi, decreti, normative e direttive che sono stati concepiti e approvati appositamente dai parlamenti, sotto la spinta delle lobbies industriali e finanziarie, in vista di un duplice scopo: indebolire il potere delle classi lavoratrici e delle classi medie, e accrescere allo stesso tempo il potere della classe dominante. A ciò vanno aggiunti i finanziamenti, dell'ordine di centinaia di milioni l'anno, che dette lobbies erogano a favore dei candidati alle elezioni politiche: mi riferisco a deputati, senatori e presidenti della Repubblica - in quest'ultimo caso, ovviamente, nei paesi come Usa e Francia dove il presidente viene eletto dal popolo - dei quali le corporations industriali e finanziarie intendono assicurarsi la benevola attenzione allorché saranno in carica.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 21 | Posizione 284-312 |

D. Per riferirsi ad un sistema virtuale a partito unico, in cui si riflettono le politiche del mercato globale, quello di Davos è stato definito un partito. R. In effetti, se si considera la loro ampiezza e visibilità, gli incontri di Davos assomigliano molto alle assemblee di un grande partito che guida la lotta di classe condotta a livello globale dai vincitori contro gli sconfitti. Il messaggio che questo partito trasmette annualmente è che l'economia mondiale può sì essere soggetta a disfunzioni temporanee, capaci di recare problemi a un certo numero di lavoratori, ma sta nell'interesse generale di questi contribuire - in primo luogo con la cosiddetta "moderazione salariale", su cui ritornerò - a farla ripartire al meglio. Più specificamente, una delle maggiori vittorie ideologiche della classe capitalistica transnazionale, sorretta da una forte componente parascientifica costituita da intellettuali e accademici, è stata quella di rappresentare alle classi subalterne il funzionamento dell'economia contemporanea, con le sue massicce componenti finanziarie, come se fosse il migliore dei mondi possibili, ossia l'economia più efficiente che si possa immaginare. Questo perché secondo i portavoce della classe dominante il capitale affluisce sempre, tramite i mercati finanziari, dove il suo rendimento è ottimale. Codesta teoria, nota come teoria macro-economica ortodossa, dovrebbe contribuire sia a migliorare le sorti dei lavoratori nei paesi sviluppati, sia a stimolare un rapido sviluppo dei paesi emergenti. Simile rappresentazione ideologica ha avuto una tale presa da restare praticamente immutata, nonostante le clamorose smentite cui la realtà l'ha esposta in tempi recenti. La crisi innescatasi nel 2007, sullo sfondo pregresso di uno sviluppo patologico del sistema finanziario, da un punto di vista rigorosamente scientifico è stata una catastrofe per il pensiero dominante a Davos (ovvero quello che Davos diffonde in tv, nei quotidiani, nelle università, nelle scuole, e nei discorsi dei politici). La crisi infatti - anche quella che continua a svolgersi in questo 2012, non sappiamo ancora con quali seguiti e in quali paesi - ha dimostrato in modo categorico due cose: che i capitali non vengono affatto allocati dai mercati nel modo più efficiente possibile, e che sono soprattutto i lavoratori a pagare i costi quando la teoria va in pezzi, insieme con le pratiche finanziarie che da essa discendono. Capitali dell'ordine di trilioni di dollari sono stati investiti in complicatissimi titoli compositi che le banche, non solo americane ma anche europee, hanno creato e diffuso in un modo che si è rivelato disastrosamente inefficiente. O meglio: che la crisi stessa ha mostrato essere inefficiente quanto rischioso. Dopodiché gli enti finanziari sono stati salvati dal fallimento dai governi, sia tramite aiuti economici diretti (oltre 15 trilioni di dollari in Usa; 1,3 trilioni di sterline nel Regno Unito; almeno un trilione di euro in Germania), sia indirettamente, forzando i paesi con un elevato debito pubblico a pagare interessi astronomici sui titoli di Stato in possesso degli enti medesimi. I quali sono in prevalenza banche francesi e tedesche i cui bilanci sono stati disastrati sia dai titoli tossici (così detti perché formati da crediti ormai considerati inesigibili) che hanno creato a valanga o hanno acquistato in gran quantità negli anni Duemila, sia da un eccesso di denaro preso in prestito da altre banche o dalle banche centrali, al fine di concedere a loro volta fiumi di prestiti da portare fuori bilancio. E così nei bilanci pubblici si sono aperti vuoti paurosi, per colmare i quali si chiede non a chi ha causato la crisi, bensì ai lavoratori e alle classi medie, di tirare la cinghia. È forse questa una delle espressioni più crude e meno studiate della lotta di classe condotta dai vincitori contro i perdenti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 22 | Posizione 323-327 |

D. In quali modi viene condotta la lotta di classe nel mondo? R. Anzitutto per mezzo di leggi, confezionate da governi e parlamenti, che sono intese, di là dalle apparenze, a rafforzare la posizione e difendere gli interessi della classe dominante, e a contrastare la possibilità che la classe operaia e la classe media affermino i propri. Un modo tipico per condurre la lotta di classe mediante la legge è la normativa fiscale.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 24 | Posizione 327-360 |

Negli ultimi decenni essa ha seguito due strade: elevati sgravi fiscali a favore dei ricchi e forti riduzioni delle imposte sulle società. L'effetto è stato quello di essiccare i bilanci pubblici dal lato delle entrate, il che ha reso necessario - questo il singolare ragionamento dei governi Ue - tagliare le spese di maggior utilità per i lavoratori. Gli sgravi fiscali introdotti in diversi paesi a favore delle classi ad alto reddito e di maggiore ricchezza hanno preso forma di una sostanziale riduzione dell'aliquota marginale (vale a dire la percentuale di imposta applicata alla porzione di reddito ricadente nell'ultimo scaglione) e delle imposte sul patrimonio e i beni ereditari. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso l'aliquota marginale sui redditi più alti era molto elevata - in Usa superava l'80% - e contribuiva quindi notevolmente a redistribuire il reddito. Per contro l'imposizione fiscale a carico delle classi medie e dei lavoratori, cioè delle classi che per natura percepiscono meno reddito e dispongono di scarse ricchezze, è rimasta costante o è addirittura cresciuta a causa della dinamica dell'inflazione e di altri processi. Negli Stati Uniti, ad esempio, il presidente Bush all'inizio degli anni Duemila ha introdotto degli sgravi fiscali che hanno permesso al 5-10% delle famiglie con il reddito più alto di risparmiare ciascuna, in media, centinaia di migliaia di dollari di imposte l'anno, mentre per il restante 90% della popolazione il vantaggio fiscale si è aggirato intorno ai 1000 dollari o poco più. In Francia, il presidente Sarkozy ha ridotto notevolmente sia la tassa sulle successioni sia quella che si chiama l'imposta sulle grandi fortune. Anche qui, una porzione della popolazione compresa tra il 5 e il 10% ha goduto di sgravi che si sono aggirati in media sulle centinaia di migliaia di euro. A questo riguardo, nel 2010 è stato pubblicato un rapporto destinato all'Assemblea francese, prodotto da uno degli uffici interni dell'Assemblea stessa, in cui si notava che in dieci anni, dal 2000 al 2009, gli sgravi fiscali - concessi in misura quasi totale soprattutto ai ricchi - avevano comportato tra i 101 e i 120 miliardi di euro di mancate entrate. In dieci anni, questa somma colossale ha contribuito a svuotare le casse dello Stato e a rendere perciò indispensabili - questa la conclusione del governo - tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al personale della pubblica amministrazione. Ciò allo scopo di ridurre un onere per lo Stato che, così sostiene non solo il governo francese ma ogni governo di centro-destra e parecchi di centro-sinistra (vedi i casi di Grecia e Spagna), nella situazione attuale tutti debbono concorrere a ridurre. L'ironia delle cifre vuole che in Francia i suddetti tagli dovrebbero ammontare, secondo quanto ha dichiarato il primo ministro Francis Fillon ai primi di novembre 2011, a circa 100 miliardi... In Italia si può ricordare l'abolizione dell'imposta comunale sugli immobili (Ici), di cui sicuramente molti cittadini si sono rallegrati, ora ripristinata. Purtroppo, però, l'abolizione dell'Ici ha svuotato per diversi anni le casse dei comuni, i quali a quei medesimi cittadini hanno dovuto tagliare asili, scuole, servizi alla famiglia, trasporti locali, assistenza alle famiglie svantaggiate. Un'altra forma di lotta di classe per mezzo del fisco in Italia è consistita nella ripetuta serie di condoni fiscali - ormai non si contano più - che sono stati un premio elevatissimo, mai visto in nessun altro paese europeo, per chi non paga le tasse; viceversa essi sono stati beffardamente punitivi per tutti coloro che, vuoi per senso civico vuoi per l'impossibilità di sottrarsi, le tasse le pagano. Vi sono anche paradossi nella normativa fiscale italiana. Essa stabilisce che l'aliquota minima, quella che si paga su un reddito imponibile fino a 15.000 euro, è del 23%. L'aliquota sale al 27% per la fascia di reddito da 15 a 28.000 euro. Per contro l'aliquota unica applicabile sulle rendite da capitale - che si guadagnano non dico dormendo, ma quasi, si tratti di opzioni sulle azioni, di dividendi, o di aumento del valore delle stesse: è sempre denaro che cresce senza dover lavorare - è stata per decenni solamente del 12,5%. È l'aliquota più bassa che si sia mai vista nei paesi Ue, dove si è sempre andati dal 20% in su quanto a imposta sulle rendite da capitali, persino nella Francia di destra. Ora un decreto legge del 2011 ha elevato questa aliquota al 20% a decorrere dal 1° gennaio 2012.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 26 | Posizione 369-387 |

Quanto alle imposte sulle società, uno studio della KPMG, nota società di servizi finanziari operante anche in Italia, condotto in 80 paesi e pubblicato nel 2010, mostra come il tasso medio dell'imposizione fiscale sia stato ridotto tra il 1995 e il 2010 dal 38 al 25%. Tra gli Stati più generosi nei confronti delle società vi sono la Germania, che ha tagliato detto tasso di 22 punti, dal 51,6 al 29,4%; la Grecia, che di punti ne ha tagliati 16 (dal 40 al 24%); l'Irlanda, che lo ha dimezzato, passando dal 24 al 12,5%; e l'Italia, che lo ha ridotto di quasi 10 punti (dal 41,3 al 31,4%). Si noti bene che quelli indicati sopra, pur ribassati, sono i tassi ufficiali di imposizione fiscale. In realtà, un buon numero di società, in ogni paese, paga assai meno, per diversi motivi. Anzitutto, nuove norme contabili hanno permesso di calcolare le imposte effettivamente dovute in modo assai più vantaggioso rispetto a due o tre lustri fa. In secondo luogo, le corporations praticano su larga scala varie forme di elusione ed evasione fiscale. A tale scopo le sedi legali di migliaia di consociate delle maggiori corporations vengono registrate in qualche isola caraibica o della Manica: sono le cosiddette "isole del tesoro", dove si pagano tasse minime. Infine va ricordato che gran parte della loro produzione è stata delocalizzata in paesi emergenti, per cui le imposte vengono pagate dalle società non nel paese d'origine, bensì in questi paesi, dove sono di norma assai contenute. Negli Stati Uniti, ad esempio, l'aliquota impositiva sulle società è rimasta immutata per decenni al 40%, ma alla nostra epoca, grazie alla combinazione di nuove norme contabili, marchingegni elusivi e delocalizzazioni, il gettito di tale imposta, che un tempo superava il 30% delle entrate federali, nel 2010 si era ridotto a meno del 6%. Per gli stessi motivi un calo di pari portata delle imposte pagate dalle corporations si è registrato in Francia: le società il cui andamento si riflette nell'indice borsistico Cac40, le maggiori del paese, contribuiscono oggi alle entrate fiscali dello Stato soltanto per il 7%, rispetto al 30 che versavano anni fa. A questo riguardo ha destato scalpore il caso della Total, gigante petrolifero, che nel 2010 ha realizzato 12 miliardi di utili ma su di essi, in base alle leggi vigenti, non ha pagato un euro di tasse nell'Esagono; si è limitata a versare qualche milioncino di indennizzo per le comunità in cui operano i pochi impianti rimasti in patria.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 27 | Posizione 389-409 |

R. Questi interventi in tema di imposte su individui e società pongono di fronte non soltanto a una questione di giustizia sociale. La destra suole infatti obiettare che anche se i ricchi diventano più ricchi, i mediamente ricchi o i mediamente poveri non ricevono alcun danno dal fatto che i primi si super-arricchiscano. Ma non è affatto vero. Anzitutto le minori entrate fiscali comportano una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti. In proposito, dovremmo avere tutti sott'occhio il caso della Grecia, dell'Irlanda e del nostro stesso paese. Accade però che dalle politiche fiscali pro ricchi le classi economicamente inferiori traggano anche danni diretti, da diversi punti di vista. Per intanto i patrimoni che si accrescono unicamente con altro denaro, non direttamente guadagnato, in grandissima parte non vengono trasformati affatto in investimenti produttivi che creano posti di lavoro, ricchezza, infrastrutture; vengono impiegati piuttosto in ulteriori investimenti finanziari. Il denaro accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce andare in cerca di altro denaro investendo se stesso, anziché investire in ricerca e sviluppo o, che so, nella scuola. E così, come ricordava il rapporto francese citato prima, alle casse dello Stato dopo un po' di anni vengono a mancare centinaia di miliardi, con la conseguenza che i governi aumentano le tasse universitarie, riducono il numero degli insegnanti nella scuola, trascurano gli investimenti infrastrutturali. Ma gli effetti negativi a danno delle classi meno abbienti non finiscono qui. Succede che, data l'enorme possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via via cresciuta negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che le classi lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più permetterseli, o possono accedervi con molta maggiore fatica. Si pensi a quella sorta di tassa sulla vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In molte città dell'Unione europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli immobili ovvero gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati talmente elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per la vita di una città, che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle loro esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più ricchi. Il punto della questione a cui badare è un altro: il vantaggio fiscale produce direttamente un peggioramento generale della qualità della vita delle classi lavoratrici e delle classi medie.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 28 | Posizione 410-416 |

D. Quali altri modi vi sono per condurre la lotta di classe dall'alto verso il basso utilizzando come strumento il processo legislativo? R. Metterei in primo piano le politiche e le relative leggi che nei paesi sviluppati, anziché combattere la disoccupazione e la povertà, le sanciscono come mali inevitabili. Gli Usa e la Ue hanno speso o impegnato almeno 18 trilioni di dollari per salvare gli enti finanziari "troppo grandi per lasciarli fallire". Per contro, allo scopo di rilanciare l'occupazione, gravemente colpita dalla Grande Recessione, sono stati spesi pochi miliardi. In Italia la manovra economica dell'agosto-settembre 2011 ha tagliato in tre anni 45 miliardi di servizi alle famiglie, pensioni, sanità, trasporti pubblici, e non un solo euro è stato destinato a creare direttamente occupazione. La stessa manovra è stata ulteriormente inasprita a dicembre dal nuovo governo Monti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 29 | Posizione 431-433 |

In questo caso la lotta di classe ha preso visibilmente la forma - ancora una volta attraverso la legge - del tentativo di impedire che la pur modesta riforma di Obama potesse realizzarsi. E in questo caso come in altri, la lotta di classe è stata condotta a colpi di centinaia di milioni di dollari.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 30 | Posizione 439-460 |

D. Attraverso quali altre forme viene condotta la lotta di classe nel mondo? R. Ci sono ancora altri modi in cui viene condotta la lotta di classe nel mondo. Uno di questi consiste nell'espulsione dalla terra dei contadini, in Africa in particolare, in America Latina, ma anche in Asia, sia occidentale che orientale, dove si distingue soprattutto la Cina. I contadini che da generazioni vivevano sulla terra e che in molti casi traevano un livello di vita modesto anche se poco sicuro dalla loro attività di coltivatori diretti, come si direbbe in Italia, sono accusati dai loro stessi governi di non essere abbastanza produttivi, di non produrre per l'esportazione, di non applicare le moderne tecnologie all'agricoltura, di non praticare le colture che sui mercati nazionali e internazionali rendono di più. Il risultato è che grandi corporations specializzate nella produzione di alimenti o nel commercio dei medesimi - molte grandi corporations fanno l'una e l'altra cosa - acquistano o affittano per 99 anni enormi superfici dell'ordine di decine di milioni di ettari in numerosi paesi africani, in India, nelle Filippine, in America Latina. Dopodiché vi introducono coltivazioni estensive, di solito monocolturali, con un avanzamento fortissimo della meccanizzazione e con la conseguente estromissione dei contadini che in quei campi lavoravano. Su 100 contadini espulsi - premesso che su una superficie di qualche migliaio di ettari i contadini espulsi possono essere a loro volta migliaia - è possibile che in un piccolo numero, diciamo il 5 o il 10%, vengano assunti come operai dalle stesse imprese che li hanno cacciati dalle loro terre. Ma nella maggior parte dei casi sono costretti a cercarsi un qualche tipo di occupazione in città, per lo più nell'economia informale; molti vanno ad aumentare la popolazione degli slums. E centinaia di migliaia rischiano di morire di fame e di malattie: come è avvenuto in Somalia nel 2011, un disastro legato a doppio filo alla concentrazione delle terre in mano a poche corporations. A proposito di slums. Con tale termine ci si riferisce - è la definizione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) - ad abitazioni precarie, con pareti e tetti di lamiera, cartongesso, compensato, quando non si tratti di semplici tende; assenza di servizi sanitari; mancanza di acqua corrente, acqua potabile ed elettricità; un forte tasso di affollamento (cioè tre o più persone per stanza, posto che si possano chiamare stanze le ripartizioni interne di queste abitazioni); una totale incertezza circa i titoli di proprietà. Gli slums costituiscono situazioni di raccapricciante degrado, che hanno registrato uno sviluppo immenso quanto rapido. Nelle megalopoli del mondo, cioè gli agglomerati urbani con oltre cinque milioni di abitanti, negli anni Ottanta la popolazione degli slums rappresentava grosso modo il 5%. Da qualche anno si stima che abbia raggiunto il 20%, e che in media stia crescendo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 31 | Posizione 469-470 |

Ad oggi, più della metà della popolazione mondiale risiede in città o agglomerati urbani; di questa metà, poco meno di un terzo vive in slums.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 32 | Posizione 475-479 |

L'abitante degli slums è per definizione privo di qualsiasi potere: perché non ha la possibilità, se non in misura limitata, di cambiare abitazione; perché non ha il potere di intervenire sul proprio reddito; perché non è in grado di mandare i figli a scuola; perché nella maggior parte dei casi non può difendersi dalle intemperie, dal clima, dalle malattie, e nemmeno dai piccoli potentati locali. Quello degli slums è veramente un altro pianeta, che ricorda certi film del dopo-bomba, quando la distruzione totale ha ridotto i sopravvissuti a un'esistenza a dir poco primordiale, fatta di fame, violenza, astuzia e forza usata contro il più debole.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 33 | Posizione 493-499 |

Il numero degli affamati nel mondo è aumentato nel corso della crisi soprattutto a causa della speculazione che i grandi gruppi finanziari e gli investitori istituzionali - di cui ho già ricordato l'enorme peso economico -, alla ricerca di investimenti più sicuri, hanno operato negli ultimi anni sui derivati, chiamati in gergo "futuri". Si tratta di contratti che in origine obbligavano una parte a vendere, e la controparte ad acquistare, una certa quantità di prodotto - detto sottostante - a una data e a un prezzo prestabiliti. In realtà, essi si sono sviluppati in modo tale che, al presente, meno del 5% delle due parti vende o compra qualcosa: la grandissima maggioranza si limita a scommettere sull'aumento o sulla riduzione di prezzo del sottostante.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 33 | Posizione 499-505 |

Gli speculatori si sono concentrati a più riprese su quei futuri che hanno come entità sottostante i prezzi di alimenti di base: grano, mais, riso, soia, sorgo. La speculazione sui futuri, che in prima battuta causa soltanto l'aumento del valore dei relativi contratti, provoca poi in rapida sequenza l'aumento del prezzo degli alimenti perché vengono considerati dei battipista di quest'ultimo. Con il contributo del suddetto processo, tra il 2005 e il 2008 gli aumenti dei generi alimentari sono andati dal 70% del riso al 130% del grano. Sui mercati mondiali i prezzi sono in seguito diminuiti, ma in molti paesi in via di sviluppo non sono scesi quasi per niente. E dopo il 2010 hanno ricominciato a salire. Per i poverissimi, che in quei paesi arrivano a destinare sino all'80% del reddito familiare agli alimenti di base, gli effetti sono stati disastrosi.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 34 | Posizione 512-518 |

Ora, c'è da chiedersi che razza di mondo sia quello che produce valore per 65.000 miliardi di dollari l'anno e non ne trova un centinaio - pari a un seicentocinquantesimo del totale - per sconfiggere la povertà estrema e la fame. I governi dei paesi ricchi sostengono di avere le casse vuote. Tra questi, i governi italiani si distinguono in modo particolare. Nella classifica dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dei 23 paesi donatori per l'Aiuto pubblico allo sviluppo, l'Italia si colloca al penultimo posto, avendo dedicato alla cooperazione allo sviluppo nel 2009 solo lo 0,16% del prodotto interno lordo, molto lontano dall'obiettivo dello 0,5% entro il 2010 e dello 0,7% entro il 2015, cui l'Italia ha più volte aderito insieme agli altri paesi più industrializzati. Dietro di noi c'è solo la Corea.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 35 | Posizione 519-532 |

Anche questo si deve a una politica dei governi attenta a non disturbare coloro che hanno un reddito elevato: in qualche misura, infatti, se si decide di versare qualche miliardo per combattere la povertà e la fame, o esso viene ulteriormente tolto ai sistemi di protezione sociale che già si trovano sotto il tiro micidiale delle politiche di austerità, oppure deve essere richiesto sotto forma di imposizione fiscale alle classi più ricche. In un paese come l'Italia, ciò equivarrebbe a qualche centinaio di euro all'anno per redditi al di sopra dei 200.000 euro circa. Un prelievo di certo non punitivo per nessuno, che però appare impossibile da realizzare. Per tre motivi: perché è una meta a cui non viene attribuito alcun peso; perché coloro che denunciano un reddito del genere sono una frazione minima di quelli che lo percepiscono davvero; e non da ultimo perché i rappresentanti degli interessi della classe dominante sono la maggioranza in parlamento. Per diverse vie le modeste risorse che vengono destinate a ridurre in misura apprezzabile la povertà e la fame nel mondo rappresentano una forma di lotta di classe. Una lotta indiretta, diversa dalla lotta fiscale, ma non meno importante perché significa indifferenza totale per la sorte di miliardi di persone. Ho citato altre volte la battuta di un personaggio che fu tempo addietro presidente della Banca mondiale - quindi non propriamente un sovversivo - e che si chiamava James Wolfensohn. Il quale ebbe a dire: quando una metà del mondo all'ora di pranzo guarda in tv l'altra metà che sta morendo di fame, la civiltà è giunta alla fine. Questa battuta tutto sommato è una efficace epitome - o forse epitaffio - della lotta di classe condotta contro i più poveri.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 36 | Posizione 540-546 |

D. Ti vengono in mente altre forme della lotta di classe nel mondo, in aggiunta a quelle considerate sinora? R. Sì, certo: per esempio quella che passa attraverso l'attacco ai sindacati, da tempo evidente anche in Italia. Benché non siano propriamente una formazione politica, nel trentennio del dopoguerra - come peraltro ho già ricordato - i sindacati hanno avuto un peso significativo nel modificare la distribuzione dei redditi a favore dei lavoratori dipendenti, e soprattutto nell'estendere i diritti dei lavoratori. Proprio per queste due ragioni, i sindacati stanno subendo un forte attacco da parte dei governi di centro-destra e perfino da parte dei governi di centro-sinistra, in Europa, fin dagli anni Ottanta.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 38 | Posizione 574-578 |

Imprese americane ed europee di ogni dimensione sono andate a costruire nuovi impianti nei paesi in via di sviluppo allo scopo di conquistare più facilmente, producendo sul posto, i mercati locali; nel contempo, hanno scoperto che conveniva produrre in questi paesi anche le merci richieste dai mercati dei loro paesi d'origine. Pertanto, da oltre un decennio, due terzi del commercio internazionale sono formati da merci che vengono fabbricate a basso costo nei paesi emergenti da imprese controllate da corporations americane ed europee e vengono poi "esportate" in Usa e in Europa come se fossero prodotti originali di un'impresa straniera.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 38 | Posizione 579-580 |

L'Iphone, ad esempio, è composto da circa 140 pezzi di cui nemmeno uno è fabbricato negli Usa.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 37 | Posizione 546-564 |

I governi hanno fatto il possibile per indebolire il potere e anche la rappresentatività dei sindacati. Basti pensare agli interventi di Margaret Thatcher, seguiti a quelli del presidente americano Ronald Reagan, che a colpi di licenziamento di decine di migliaia di lavoratori in diversi settori dell'economia hanno ottenuto un successo notevole nel ridurre drasticamente il potere delle rappresentanze sindacali. Da qui è derivata in Europa come in Usa una forte perdita di iscrizioni ai sindacati, soprattutto nell'industria e nei servizi; un po' meno nel pubblico impiego. Si inserisce in questo quadro anche la campagna in corso, scatenata in Italia da alcuni anni, con il centro-destra che dipinge i sindacati come retrogradi, relitti di un'epoca passata, istituzioni non più funzionali all'industria e ai servizi moderni. Perfino gran parte del centro-sinistra sostiene che essi si debbano "modernizzare", ossia debbano accettare qualsiasi condizione di lavoro le imprese propongano loro. Tutto questo fa parte di una lotta di classe che non attacca direttamente la classe, ma quello che, volere o no, ha rappresentato fino ad oggi un suo importante baluardo. Nel nostro paese l'ultimo pesante attacco legislativo al sindacato è stato condotto mediante un articolo inserito nel decreto sulla manovra economica del settembre 2011. Esso svuota di fatto sia i contratti nazionali collettivi di lavoro, sia l'intero Statuto dei Lavoratori del 1970, poiché qualsiasi disposizione legislativa può venire derogata se il sindacato più rappresentativo su base territoriale - quindi anche un qualsiasi sindacato di comodo, o maggioritario solo in un ristretto ambito territoriale - si accorda con l'azienda. Bisogna aggiungere che una mano a indebolire il sindacato l'ha data anche la Corte di Giustizia europea, un organismo le cui decisioni appaiono fortemente orientate dall'ideologia neoliberale, sulla quale vorrei tornare più avanti. Essa si è più volte pronunciata contro iniziative sindacali intese a ridurre il dumping salariale tra i paesi Ue (per cui, ad esempio, un'impresa dell'Estonia che lavora in Francia può pretendere legittimamente di pagare i lavoratori francesi a tariffe estoni) o la violazione della legislazione sul lavoro del paese ospitante, più avanzata, da parte di un'impresa ospite. Secondo la Corte in parola ciò sarebbe contrario alla normativa del Mercato comune europeo, in specie per quanto riguarda gli accordi sugli scambi di servizi. Sono infiniti i campi della società in cui si può condurre la lotta di classe dall'alto verso il basso.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 39 | Posizione 587-596 |

Per ridurre il potere di un avversario come la classe operaia, non esiste mezzo migliore che togliere di mezzo le basi materiali della sua esistenza. La classe operaia, il movimento dei lavoratori, i sindacati nascono e si sviluppano in una situazione storica ben precisa: la creazione e lo sviluppo nei paesi occidentali della fabbrica e di quelle sedi dove i prodotti della fabbrica vengono venduti, l'insieme del cosiddetto terziario (la distribuzione, il commercio, i servizi alle imprese e alle famiglie). Quindi si è fatto il possibile per portar via le fabbriche dai luoghi in cui esse avevano conosciuto il massimo sviluppo, e dove si era affermato progressivamente il potere delle classi lavoratrici di incidere sulla distribuzione del reddito, sul governo delle imprese, sull'organizzazione del lavoro. In poche parole, dagli Stati Uniti e dall'Europa, che vuol dire soprattutto l'Unione europea - e in particolare l'eurozona, che conta oggi 17 paesi, ed è quella economicamente più forte -, un gran numero di fabbriche e di servizi che girano attorno ad esse è stato trasferito nei cosiddetti paesi emergenti, dove sono state investite migliaia di miliardi di dollari per realizzare impianti produttivi che avrebbero potuto essere tranquillamente creati in gran parte nei paesi d'origine.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 40 | Posizione 597-606 |

R. In prima battuta, già negli anni Ottanta, i cosiddetti "investimenti diretti all'estero" sono stati convogliati soprattutto verso la Cina; altri imponenti flussi di capitali hanno preso la strada verso India, Filippine, Indonesia, America Latina. Lo scopo iniziale è stato ovunque il medesimo: poter disporre di una forza lavoro sottomessa, flessibile, pagata cinque o dieci volte di meno che negli Usa o nella Ue, praticamente priva di qualsiasi diritto (o meglio senza alcuna legge che proteggesse i suoi diritti), con una presenza sindacale praticamente inesistente e nessuna tutela ambientale. L'obiettivo, insomma, era quello di ottenere una completa libertà d'azione nei paesi emergenti - una libertà d'azione impossibile nei paesi d'origine (Stati Uniti ed Unione europea) dove le grandi corporations erano e sono vincolate da una serie di leggi e di norme nate dalle lotte operaie e dal movimento sindacale, oltre che dagli interventi, almeno per qualche tempo, dei partiti socialdemocratici e democristiani. La Cina, prima, e per certi aspetti anche l'India, in seguito, non sono paesi emersi nell'economia mondiale unicamente con le proprie forze: sono stati in larga misura una creatura dell'Occidente, con il quale solo più tardi hanno iniziato a competere.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
- Le mie note a pagina 54 | Posizione 816 |

cfr. Weber. slum e etica protestante.. se non fossero tenuti in condizioni miserevoli potrebbero ribellarsi
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 54 | Posizione 811-816 |

Quello che Marx non aveva colto appieno era che il peso degli interessi materiali alla sopravvivenza, che si trasmettono di generazione in generazione, non è una buona ricetta per fabbricare dei rivoluzionari. In astratto, si potrebbe pensare che il miliardo di affamati del mondo, in gran parte africani, ad un certo punto attraversi lo stretto di Gibilterra e arrivi in Europa per invadere i supermercati, saccheggiare le città e impadronirsi delle ricchezze dell'Occidente. In realtà, la grandissima maggioranza di quel miliardo di affamati riesce a stento a sopravvivere sulla propria terra, e non ha la forza, la volontà, né un progetto di vita che vada oltre il procurarsi di che sopravvivere per sé e i propri figli, da un pasto all'altro e da un giorno all'altro.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 56 | Posizione 836-845 |

D. Quale il nome di questa possessione? Quale l'architetto del progetto - politico ed economico, come tu l'hai descritto - che chiamiamo globalizzazione? R. È il neoliberalismo l'armatura ideologica della controffensiva - da qualcuno definita appropriatamente come una forma di reconquista, con riferimento alla crociata contro i "mori" iniziata nel X secolo dai sovrani di Spagna e Portogallo - che la classe capitalistica transnazionale ha avviato dopo che aveva perso terreno nei trent'anni successivi al dopoguerra. Negli Stati Uniti essa ha dovuto sopportare l'ascesa della classe operaia qualche anno in più, perché già durante il New Deal aveva dovuto cedere qualche privilegio dopo la catastrofe che aveva provocato con le sue stesse mani nel 1929. La reconquista è stata un'operazione sistematica, condotta con metodi scientifici, con una disponibilità immensa di mezzi, e avviata molto presto. Qualche storico delle ideologie sostiene che questo elemento della controffensiva, cioè il piano ideologico che la sostiene, fosse in corso fin dal 1950-1960, soprattutto ad opera di economisti neoliberali: in primis la Scuola di Chicago (quella dei famosi Chicago Boys), la cui figura più importante fu quella dell'iperliberale Milton Friedman.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 56 | Posizione 851-855 |

Anche se qualcuno, allorché nel 2009 la crisi sembrava in via di risoluzione, ha annunciato con troppa fretta che il liberismo (sinonimo di neoliberalismo, la versione fondamentalista e degenere del pensiero liberale) era morto. Gradualmente tale ideologia è diventata una teoria di ogni aspetto dell'esistenza: una teoria della scuola, della comunicazione, dei beni comuni, della ricerca scientifica, degli insegnamenti che l'università dovrebbe impartire (al fine, vale a dire, di formare anzitutto manager e tecnici per l'industria, e naturalmente per il mondo finanziario).
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 58 | Posizione 881-882 |

Un docente dell'Università di Milano, Massimo Florio, in un suo documentatissimo libro ha definito le privatizzazioni britanniche dell'epoca Thatcher "la grande spoliazione".
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 59 | Posizione 883-892 |

Il guaio è che perfino i discendenti dei partiti comunisti di un tempo hanno in pratica fatto proprio lo stesso modo di ragionare sul mondo; il quale, a ben guardare, è il modo di ragionare scientificamente costruito dai think tanks del pensiero neoliberale. Questa è forse la più grande iattura capitata dopo il 1989 a quella che chiamiamo genericamente la classe lavoratrice. Invece di transitare verso un'idea di democrazia sociale, di socialismo democratico pre-Schroeder, che ripudiasse certo gli errori e le nefandezze del socialismo reale, ma ne conservasse gli ideali, le speranze e l'idea che un'esistenza più alta, più complessa e intellettualmente più ricca è possibile, i fautori della Terza Via hanno adottato in pieno il credo neoliberale e si sono limitati a cercare il modo di indennizzare in modesta misura i perdenti della lotta di classe. Da questo punto di vista oso affermare che non c'è molta differenza tra i teocon compassionevoli che hanno sostenuto per due mandati George W. Bush e una parte notevole dei partiti socialisti o socialdemocratici europei, con l'eccezione di una piccola minoranza di politici o persone comuni che entro questi partiti hanno il coraggio di collocarsi sul serio a sinistra e non temono di dirlo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 62 | Posizione 931-939 |

Il nostro paese paga, ad onta delle analisi alla Bill Emmott prima richiamate, il fatto di non aver avuto per decenni una politica industriale. Si veda quel che è accaduto nel settore automobilistico. A metà degli anni Novanta il gruppo Volkswagen era poco più grande del gruppo Fiat. Nel 2010 ha prodotto quattro volte di più sul piano mondiale (7,3 milioni di vetture contro 1,8) e poco meno, in proporzione, sul territorio nazionale (2,3 milioni di vetture contro le 564.000 del Lingotto). Lo stesso anno ha investito in ricerca e sviluppo 20 miliardi di euro, contro l' 1,9 della Fiat. La Volkswagen, inoltre, paga salari doppi rispetto al Lingotto, e nel pieno della crisi non ha licenziato nessuno; invece di mandare a casa i lavoratori, ha applicato forme articolate di redistribuzione degli orari di lavoro, d'intesa con i sindacati, con una riduzione minima dei salari (circa il 4%). Evidentemente la Germania ha saputo costruire, sul piano politico ed economico, delle alternative che in Italia sono state invece cancellate. La globalizzazione, parrebbe, non è uguale per tutti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 95 | Posizione 1434-1450 |

D. Ai nostri giorni la crisi economica ha portato di nuovo in auge l'idea di un complotto attuato dalla finanza internazionale, ovvero dai cosiddetti "poteri forti", da essa ordito contro i governi nazionali e la popolazione della Ue per sottomettere gli uni e l'altra ai suoi voleri e interessi. Si può dire che la classe capitalistica transnazionale sia la matrice di un simile complotto, magari elaborato poi nei dettagli dai think tanks richiamati sopra? R. L'idea di un complotto alla radice della crisi è tipicamente di destra, se non anzi di estrema destra. Durante gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la propaganda dei nazisti e dei fascisti abbondava di invettive contro il complotto della plutocrazia, cioè del "governo dei ricchi", della finanza internazionale e dei banchieri, delle quali sarà superfluo ricordare le connotazioni antiebraiche. Poche persone chiuse nelle loro stanze, che cospirano per asservire i popoli, come le dipingevano le vignette dei giornali dell'epoca. Ora quella stessa idea sembra ritornare, alimentata anche dalla crisi e dalle politiche di austerità di cui torneremo ad occuparci più avanti. Il fatto è che, essendo egemone nel senso gramsciano del termine, la classe capitalistica transnazionale non ha bisogno di alcun complotto per agire come vuole sul terreno economico e politico (a dire il vero con qualche eccezione: il colpo di Stato in Cile contro il governo legittimo di Salvador Allende nel 1973 fu in effetti l'esito di un complotto). È una classe i cui membri interpretano la stessa parte, sia pure con differenze di abilità e di stile, indipendentemente dalla nazionalità: parlano lo stesso linguaggio, quello dell'ortodossia neoliberale, e con il medesimo di sicuro pensano; hanno innumerevoli occasioni e luoghi di incontro. Una parte che è quella assegnata loro dalla struttura economica che la esprime e che elargisce loro incentivi stellari non meno che dure punizioni se compiono errori nel corso della recita. È una classe che gode di un potere mai visto nella storia. Ed è circondata dal consenso di centinaia di milioni di persone, che essa stessa ha impiegato decenni a costruire. Perché mai i suoi componenti dovrebbero prendersi la briga di inventare un complotto?
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 96 | Posizione 1450-1470 |

D. Se la classe capitalistica transnazionale è una classe per la quale è fondamentale la produzione ideologica, è inevitabile, a questo punto, richiamare il ruolo degli intellettuali. R. Non ne dubito. Rispetto a quanto detto in tema di egemonia vincente e progetto di egemonia perdente, credo che una responsabilità spiccata ce l'abbiano gli intellettuali, soprattutto gli accademici. Diversamente da altre frazioni della classe media, la loro collocazione professionale li vede tuttora in posizione relativamente privilegiata, sia sotto il profilo economico sia sotto quello del prestigio e del pubblico che possono raggiungere tramite i media. Sarebbe una posizione ideale per alzare la voce nei confronti del potere. Ciò nonostante la maggior parte degli accademici, tanto nelle nostre quanto nelle università di altri paesi, in Europa come negli Stati Uniti, non pare aver compiuto in questi anni grandi sforzi per sviluppare forme di analisi critica e di riprogettazione politica - per quanto attiene, ad esempio, allo Stato sociale - atte a contrastare il pensiero neoliberale. Anche nei casi in cui dicono tra loro di non condividerla affatto. Molti di loro hanno preferito alimentare con la loro dottrina i think tanks neoliberali, oppure lasciar da parte l'impegno a dimostrare che tutto ciò che è potrebbe essere differente - che è l'essenza del pensiero critico. Non v'è dubbio che i think tanks in questione possano offrire maggiori gratificazioni non solo riguardo allo stipendio, ma anche riguardo ai fondi su cui un accademico critico può contare nella sua facoltà o dipartimento. Questi, infatti, se dà a vedere di voler uscire dal pensiero ortodosso, difficilmente riesce ad ottenere risorse cospicue per condurre i suoi studi. Avviene in tutte le università dell'Occidente. E non solo nel campo delle ricerche economiche, ma pure in campo politico, storico, sociologico, filosofico. Alla fine, sebbene si trovino in una posizione di relativo agio e discreta indipendenza, è piuttosto piccolo il numero di universitari che ha approfittato di tale posizione per provare a contrastare sul piano del metodo, della ricerca e della critica le dottrine neoliberali - dottrine che hanno fatto breccia in infinite menti. A cominciare da quelle dei loro studenti. Non arriverei a parlare di una rinnovata trahison des clercs, ma per certi aspetti questo strato sociale, la frazione della classe media e medio-alta costituita dagli accademici, è venuto meno in parte consistente a quelli che in astratto sembravano essere i suoi doveri, i principi da difendere rispetto a ciò che stava accadendo nel mondo politico e nell'economia dei nostri paesi e di quelli emergenti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 102 | Posizione 1556-1564 |

Nel periodo 1976-2006 la quota salari, cioè l'incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (ivi compreso il reddito da lavoro autonomo, il quale viene calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati), si è abbassata di molto. Facendo riferimento ai 15 paesi più ricchi dell'Ocse detta quota è calata in media di 10 punti, passando dal 68 al 58% del Pil. In Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. Per i lavoratori equivale a una colossale perdita di reddito, perché oggi un punto di Pil vale, per l'Italia, circa 16 miliardi di euro. Ne consegue che 15 punti di Pil, se fossero calcolati sul Pil di oggi e in moneta corrente, ammonterebbero a 240 miliardi di euro, che sarebbero distribuiti tra tutti i lavoratori (compresi, ripeto, i lavoratori autonomi, questo prevedendo il metodo di calcolo Ocse). Si è talora sostenuto che questo enorme calo della quota salari sia dovuto ad un incremento dell'imposizione fiscale e più in generale dei cosiddetti prelievi o contributi obbligatori. Un esame delle voci che compongono il Pil dice che non è affatto così: la maggior parte di quei punti sottratti alle classi lavoratrici, e in buona parte anche alle classi medie, è andata alle rendite e ai profitti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 107 | Posizione 1628-1635 |

In Italia, i 5 decimi della parte inferiore della scala, cioè la metà della popolazione, posseggono in tutto soltanto il 10% della ricchezza nazionale, mentre il decimo più ricco detiene, da solo, circa il 50% di essa. Il nostro paese si distingue inoltre per numero insolitamente elevato dei milionari in dollari, quelli al vertice della piramide. Essi rappresentano ben il 6% del totale mondo, un punto in più a paragone di Francia e Germania (sempre secondo il rapporto del Credit Suisse). Tale quota corrisponde a 1,5 milioni d'individui sui 24,2 al vertice. Il che induce a far qualche rozzo calcolo. Se il patrimonio di questi individui "ad alto valore netto", di cui 1 milione di dollari è il limite inferiore ma l'entità media è considerevolmente più alta, fosse stato assoggettato a una risibile patrimoniale permanente di 3000 euro in media, si sarebbero raccolti 4,5 miliardi l'anno. Una cifra grosso modo equivalente ai tagli della pensione dei lavoratori dipendenti decisi dal neo governo Monti nel dicembre 2011.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 112 | Posizione 1694-1706 |

Vi sono però altri fattori, in parte già ricordati. Le politiche fiscali, per esempio: abbiamo rilevato in precedenza che l'Italia è l'unico paese in cui il salario, la retribuzione dei lavoratori dipendenti, viene tassato con un'aliquota iniziale del 23%, mentre i guadagni da capitale sono stati tassati per lungo tempo al 12,5%, aliquota portata al 20 solo da un decreto legge nell'autunno 2011. Dato l'enorme sviluppo negli ultimi trent'anni dell'attività finanziaria, ciò ha favorito la concentrazione dei redditi verso l'alto, mentre i salari - a differenza di altri paesi Ue - sono apparsi stagnanti. In termini reali, cioè depurati dell'inflazione, in Italia i salari sono aumentati di pochi punti percentuali (tra i 3 e i 5) rispetto al 1995, mentre in Francia, Germania, Regno Unito, essi sono aumentati tra il 15 e il 25% nello stesso periodo di tempo. A questo proposito la dice lunga la distribuzione del prelievo fiscale in forma di imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Alla fine degli anni Ottanta le entrate Irpef da lavoro dipendente costituivano il 40% delle entrate totali derivanti da questa imposta. Al presente, sono salite al 60%. Per contro la quota di Irpef derivante da lavoro non dipendente (quello di imprenditori, commercianti, professionisti, artigiani e simili) si è ridotta da poco meno del 38 a circa il 10%. Si aggiunga che il restante 30% dell'Irpef è pagato dai pensionati - i quali per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti - sicché essi restituiscono allo Stato sotto forma di Irpef circa 3 punti di Pil, pari nel 2009 a oltre 45 miliardi. Sarebbero questi i parassiti che hanno portato ad un aggravamento smodato del debito pubblico.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 116 | Posizione 1773-1779 |

Ad esempio in Germania, il paese degli alti salari, nel 2009 i lavoratori poveri secondo la definizione Ocse erano il 22,7% degli occupati, pari a 6,5 milioni di persone, e guadagnavano in media 6 euro lordi all'ora, ovvero 800 euro lordi al mese. La medesima categoria di lavoratori toccava il 25% negli Usa, il 21,7 nel Regno Unito, il 17,6 in Olanda; solamente il 10,1% in Francia, grazie anche al "reddito di solidarietà attiva" che in questo paese viene erogato, oltre che a soggetti inoccupati e a disoccupati privi di altre fonti di reddito, agli occupati a basso salario. Va inoltre notato che in Germania, dove il lavoratore specializzato del settore meccanico ha redditi dell'ordine di 2500-2700 euro al mese (cioè più del doppio di quelli italiani), vi sono anche parecchi milioni di cosiddetti minijobs, cioè lavori da non più di 15 ore alla settimana, pagati a forfait, che danno luogo a un reddito mensile intorno ai 500 euro.

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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 122 | Posizione 1843-1862 |

Un aspetto incongruo delle politiche di austerità, le quali sono in sé politiche arcignamente di destra, è che vengono sovente condotte da governi di centro-sinistra, oppure da governi di centro-destra eredi dimentichi di quelle politiche democristiane che hanno contribuito non poco a sviluppare lo Stato sociale. Per quanto attiene al primo caso, si veda cos'è accaduto in Grecia, in Spagna, in Portogallo. In questi paesi i governi socialisti e socialdemocratici al potere, sinché sono durati, dapprima hanno mentito ai loro stessi elettori sulle cause della crisi (e quando non mentivano mostravano di non aver capito assolutamente le radici profonde di essa); dopodiché hanno imposto a suon di colpi di maggioranza parlamentare misure di austerità intrinsecamente di destra. Ridurre a ogni costo la spesa pubblica; avviare un piano di privatizzazioni dei servizi pubblici; vendere al miglior offerente il patrimonio terriero e immobiliare dello Stato; modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali, che significa in realtà far arretrare di decenni sia il primo che le seconde: sono tutte ricette di destra che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che parecchi governi Ue, combinando ideologia liberista, incompetenza e a volte una buona dose di ipocrisia, hanno ora rispolverato come fossero rimedi alla crisi. Non parlo a caso di ipocrisia. Si pensi al governo tedesco, con la sua pretesa di imporre ai paesi membri di adottare severi tagli allo Stato sociale in ossequio alla sacralità del bilancio in pareggio e al dovere di porre fine a decenni di spese pubbliche eccessive. In realtà, il suo scopo ultimo è quello di salvare le banche tedesche, che sin dai primi anni 2000 sono tra le più malandate della Ue. Soltanto il fallimento della Hypo Real Estate, nel 2009, è costato allo Stato federale più di 100 miliardi di euro. Altri 40 sono stati iniettati nel suo bilancio nell'autunno del 2010. Sarebbe facile citare altri casi simili. Vi sono poi le banche regionali, quasi tutte a maggioranza pubblica. Secondo una stima di fine 2009 del BaFin, l'ente di sorveglianza dei servizi finanziari, il settore bancario pubblico tedesco era esposto a rischi di investimento e di insolvenza da parte dei creditori per un totale di 355 miliardi. Da allora sono in corso affannose campagne di ristrutturazioni organizzative e finanziarie, anche a colpi di fusioni e acquisizioni, per tentare di rimettere in sesto le suddette banche, che costituiscono ben 15 delle 20 maggiori banche tedesche. In altre parole, gratta i proclami sull'austerità da perseguire, e trovi bilanci di enti finanziari in dubbie condizioni da salvare.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 123 | Posizione 1862-1873 |

Altro paradosso: la diagnosi giusta, riassumibile nella formula "l'austerità impicca l'economia", sta diventando un grido di destra. Nell'estate 2011, in Grecia, il capo dell'opposizione Antonis Samaras, rappresentante dell'ultra destra, ha raccolto nelle piazze decine di migliaia di persone denunciando l'austerità che la maggioranza socialdemocratica (risicata, ma pur sempre maggioranza) voleva imporre, col rischio di aggravare la recessione e di condannare gran parte della popolazione a decenni di povertà. Un messaggio di sinistra viene lanciato dal leader della destra e fa presa su elettorati di destra, come mostra il successo delle formazioni di orientamento simile presenti in decine di paesi europei. Di fatto, poco dopo, il governo socialdemocratico di Papandreu è caduto per essere sostituito da un governo di destra, di cui fanno parte anche ministri dal passato inequivocabilmente fascista. Pensiamo anche ai democristiani in Germania: si tratta della formazione politica che a suo tempo ha dato un significativo contributo allo sviluppo dello Stato sociale tedesco, durante la ricostruzione e nei lustri (se non decenni) seguenti. Ora eccola che impone tagli, restrizioni e misure che portano chiaramente all'impoverimento delle classi lavoratrici e medie e che rischiano di creare seri problemi all'economia - anche se la Germania al momento vive sull'enorme eccedenza delle esportazioni proprie grazie al deficit delle medesime che fan registrare gli altri paesi Ue.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 126 | Posizione 1905-1924 |

R. È innegabile che le coordinate dello Stato sociale in Europa siano diverse da un paese all'altro. In particolare sono diverse tra i paesi dell'eurozona, ora saliti a 17, i maggiori dei quali hanno inventato e sviluppato questo modello fin dai primi anni del dopoguerra, e i paesi che invece sono entrati nell'Unione solo di recente. Si tratta - come tu noti - di paesi in cui esisteva un altro modello, quello del socialismo reale, il quale presentava già qualche aspetto del modello sociale europeo, perché garantiva sicurezza quanto a occupazione, istruzione fino ai livelli superiori, previdenza, sanità. Dopo il crollo dei rispettivi regimi, esso è stato prima travolto dalle privatizzazioni selvagge guidate dagli economisti ultraliberali americani (diversi dei quali fanno o hanno fatto parte dello staff economico del presidente Obama) e poi faticosamente ricomposto in una certa misura; in ogni caso appare molto meno sviluppato di quanto non siano quelli di Italia, Francia, Germania, Regno Unito. Resta vero, comunque, che non si può parlare di un unico modello di Stato sociale. Pensiamo ai servizi alla famiglia, ad esempio, che sono notevolmente sviluppati in paesi come la Danimarca e nei paesi scandinavi in generale, mentre sono assai carenti in paesi come il nostro. Ciò nonostante, nel loro insieme i paesi europei, in specie quelli dell'Europa occidentale, hanno condiviso per decenni forme di Stato sociale che hanno la funzione di proteggere persone e famiglie da quei cinque o sei tipi di avversità già ricordati, dalla povertà alla vecchiaia, dall'incidente alla malattia e alla disoccupazione. Tali diverse forme di Stato sociale hanno costituito sino ad oggi un robusto baluardo per contenere gli elevati costi umani e sociali della crisi apertasi nel 2007. Nella Ue ancora non si vedono decine di milioni di persone la cui sussistenza dipende dai bollini alimentari mensili erogati dallo Stato, come purtroppo avviene negli Stati Uniti. Né vi sono decine di milioni di persone impossibilitate a ricevere, in caso di bisogno, un'adeguata assistenza sanitaria perché non potrebbero mai pagare un'assicurazione da parecchie migliaia di euro l'anno. È un paradosso dell'Unione europea che, dopo aver eretto questa sorta di grande edificio civile a partire nientemeno che dagli anni Quaranta, quando era ancora in corso la seconda guerra mondiale, i paesi membri abbiano iniziato una campagna che, se non è ancora di vera e propria demolizione del modello sociale europeo, comincia pericolosamente ad assomigliargli.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 127 | Posizione 1925-1933 |

R. Il paradosso risiede nel fatto che da un lato abbiamo la crisi dei bilanci statali, con l'aumento del deficit, cresciuto di dieci volte in pochi anni, e il corrispettivo aumento del debito pubblico; dall'altro accade che i paesi europei, tanto quelli governati da forze politiche di destra o di centro-destra quanto quelli governati da forze di centro-sinistra, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore per risanare i bilanci consista nel tagliare la spesa inerente alle varie componenti dello Stato sociale. La lotta di classe è evidente nel fatto che i paesi europei nel loro complesso, come ho già ricordato, hanno speso o impegnato circa tre trilioni di euro (compreso il Regno Unito, una volta fatta la conversione dalla sterlina all'euro) per salvare le banche e in generale le istituzioni finanziarie in crisi, dopodiché per risanare i bilanci han pensato bene di effettuare massicci tagli allo Stato sociale. Giustificandoli perché saremmo di fronte a un insostenibile eccesso della spesa per pensioni, sanità, famiglie, sostegno al reddito e assistenza agli invalidi.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 128 | Posizione 1948-1961 |

Alla fine l'austerità necessaria per risanare i bilanci pubblici viene concentrata unicamente sulle spese necessarie per sostenere lo Stato sociale. Non già sul complesso delle spese, come attesta fra tante altre voci di bilancio la decisione del nuovo governo italiano presieduto da Mario Monti di continuare a spendere svariati miliardi al fine di acquistare aerei o navi da combattimento, per difendersi non si sa da chi. O per realizzare grandi opere prive di ogni razionalità tecnica o economica, come la Tav Torino-Lione o la Milano-Genova, la cui esigenza sarebbe imposta in ambedue i casi da un aumento del traffico merci. Prova tu a spiegare da quale paese arrivino le minacce, o perché gli abiti arrivati dall'India via mare o i formaggi francesi dovrebbero, seppure i loro container lo permettessero, viaggiare a 300 km all'ora. Simili impuntature, dalle quali appare sin troppo scoperto se non il disinteresse per le condizioni di vita e di lavoro dei più, quanto meno una loro scarsa conoscenza, hanno come primo risultato di accrescere le tensioni sociali, i risentimenti, la frustrazione. Stati d'animo che non si può mai prevedere quale orientamento, anche politico, possano prendere. C'è poi una seconda conseguenza: tagliando le spese per l'istruzione pubblica o aumentandone i costi diretti e indiretti (e dunque rendendone in ambedue i casi l'accesso più difficile); assottigliando ulteriormente i fondi per la ricerca; riducendo le ore di insegnamento nelle scuole superiori; aumentando le tasse per l'istruzione universitaria, l'Unione europea finirà per produrre una generazione di persone in complesso meno istruite. In Italia si è arrivati addirittura al punto di abbassare l'età dell'obbligo scolastico da 16 a 15 anni, in forza di un articolo del "Collegato lavoro" della legge finanziaria 2010.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 132 | Posizione 1975-2012 |

R. Le entrate sono considerevolmente scese col tempo, per quanto riguarda i bilanci pubblici, a causa delle politiche fiscali che abbiamo ricordato. Ma dal lato delle entrate bisogna pure tornare a sottolineare il fatto che le imposte nel loro complesso le pagano soprattutto le classi lavoratrici e le classi medie. Basti pensare al caso italiano, in cui - rammentiamolo per buona memoria - oltre il 90% dell'Irpef viene pagato dai lavoratori dipendenti: più precisamente per circa il 60% da quelli in attività e per il 30% dai pensionati. Tutti gli altri, commercianti e artigiani, imprenditori e professionisti, che rappresentano oltre un quarto della popolazione attiva, versano meno del 10% delle imposte personali sul reddito. In sostanza quello che viene presentato come un deficit dovuto all'eccesso di spesa per pensioni, sanità, istruzione, è in realtà un deficit delle entrate costruito dalla politica negli ultimi decenni. Il caso italiano si ritrova in altri paesi: cifre analoghe si hanno ad esempio in Germania, con la differenza che in quel paese i salari sono più alti e i pensionati pagano tasse ridotte, mentre da noi le pagano nella stessa misura dei lavoratori in attività. Poi c'è il fatto, sul quale ci siamo già dilungati ma che è opportuno qui richiamare, che le imposte sulle imprese sono state notevolmente abbassate nell'eurozona negli ultimi quindici anni. Mediante simile competizione fiscale gli Stati cercano di attirare sul loro territorio nuove imprese, ma così facendo scavano voragini nei loro bilanci. Esemplare al riguardo è stato il caso dell'Irlanda. Ricordo inoltre che si parla sempre di aliquote teoriche, perché bisogna poi vedere chi, come, dove e quando paga effettivamente le imposte. Molte imprese le pagano in misura inferiore a quella teorica, grazie a due meccanismi: mostrano di conseguire o effettivamente realizzano gli utili all'estero, e/o insediano migliaia di sussidiarie o di società di scopo, tipo i "veicoli" delle grandi banche, nei paradisi fiscali. In ambedue i casi pagano imposte effettive minime, che comunque vengono sottratte allo Stato d'origine. Un elenco aggiornato di paradisi fiscali comprende poco meno di cento paesi, in cui hanno sede migliaia di imprese europee, oltre che americane. E se i primi nomi che vengono alla mente sono isole come le Antille, Antigua, Bahamas o Cayman, anche l'Europa è piena di paradisi fiscali. Non a caso, essendo Londra un centro finanziario di primo piano, alcuni sono inglesi, come le isole Guernsey e Jersey. Lo stesso si può dire del Lussemburgo e di Andorra; infine, sebbene non figuri nella suddetta lista, la Svizzera, che da sempre aiuta le corporations e i loro capi a mascherare buona parte dei loro redditi. Nell'estate 2011 una delle più arcigne agenzie federali Usa, la Homeland Security, stava indagando sulla maggiore banca di quel paese, la Ubs, perché la sospettava di aver aiutato decine di migliaia di ricchi contribuenti americani ad evadere il fisco. Da ultimo non si può trascurare che oltre alle società che collocano la loro sede legale o i loro "veicoli" nelle "isole del tesoro" senza formalmente violare alcuna legge, grazie alla condiscendenza del parlamento del proprio paese, vi sono enormi quantità di denaro illecito proveniente da diversi paesi occultate negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nelle isole Cayman. Il denaro illecito, secondo la definizione di un istituto americano che ha pubblicato nel 2010 un rapporto approfondito in merito, il Center for International Policy, è denaro che viene illegalmente guadagnato, trasferito o utilizzato. Esso sfugge a ogni tassazione poiché è detenuto da privati in "giurisdizioni segrete". L'istituto in parola stima che attualmente esso ammonti a 20 trilioni di dollari; gli Usa, il Regno Unito e le Cayman, considerati come singole giurisdizioni, ospitano ciascuno 1,5 trilioni di dollari. Negli ultimi tredici anni questi depositi segreti sono cresciuti al tasso fenomenale del 9% annuo. Supponendo che la metà di quel denaro provenga dalla Ue, se ne trae che se esso pagasse una patrimoniale del 5%, i pubblici bilanci incasserebbero per questa sola voce 500 miliardi di dollari, ossia circa 400 miliardi di euro. Se poi venisse per metà sequestrato dalla Guardia di finanza, come meriterebbe, i problemi di bilancio della Ue sarebbero di colpo risolti... La circostanza che le imposte siano pagate soprattutto dalle classi meno abbienti, quelle medio-inferiori quanto a reddito e ricchezza, con una sproporzione a loro danno che si è accentuata negli ultimi vent'anni, in aggiunta al calo delle entrate in seguito alla ridotta tassazione effettiva delle imprese e alla forte crescita del denaro illecito, fa sì che i bilanci degli Stati europei siano effettivamente sofferenti. Ma lo sono per cause che non corrispondono affatto, se non in piccola parte, a quelle che vengono continuamente propinate all'opinione pubblica come eccesso di generosità dello Stato sociale, per essere poi tradotte nella necessità assoluta di tagliare la spesa sociale perché altrimenti i bilanci non ce la fanno.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 135 | Posizione 2046-2068 |

R. Mi rifarei all'idea di contromovimento, elaborata da Karl Polanyi nel secolo scorso per designare la grande trasformazione dell'economia e del capitalismo intervenuta negli anni Trenta e Quaranta. Essa è tuttora utile per cercare di capire quello che potrebbe succedere nel prossimo futuro. Il contromovimento è formato da interventi, reazioni diffuse, riforme che a un certo punto paiono indispensabili: sono tutti processi che emergono al fine di riequilibrare il peso dell'irrefrenabile dispiegamento dell'economia - che allora era liberale e adesso diciamo neoliberale - e della riduzione a merce di cose che, già secondo Polanyi, non dovevano assolutamente essere mercificate: vale a dire il lavoro, la terra e il denaro. Questo contromovimento, che si oppone al movimento di eccessiva deregolazione dell'economia - diceva Polanyi -, può prendere fondamentalmente due strade. La strada di sinistra, ovvero di tipo socialdemocratico nel senso forte che il termine aveva agli inizi del Novecento; non certo negli anni Ottanta o Novanta, quando la socialdemocrazia è diventata una sorta di terza via non già del movimento operaio, o delle riforme, bensì del capitalismo senza regole. L'altra strada che le riforme, gli interventi, le reazioni, il voto potrebbero prendere è quella che porta - l'ho già notato - a qualche forma di Stato autoritario: un regime che, a prezzo di tagli incisivi non solo ai bilanci ma al processo democratico, promette di risolvere dall'alto i problemi che assediano la vita quotidiana di milioni di persone. In effetti, si tratta di un processo in corso. Il contromovimento autoritario ha già inviato segnali importanti in Europa, dove formazioni politiche di destra che usano messaggi terribilmente semplificatori ("noi siamo in grado di risolvere i vostri problemi"; "il nemico è l'immigrato, il comunista" - in taluni casi qualcuno osa dire perfino "l'ebreo"; "il nemico è chiunque non la pensi come noi") sono unanimi nel sostenere che le colpe sono dei governi che hanno speso troppo, e quindi bisogna "affamare la bestia" riducendo lo Stato al minimo. È la posizione dei conservatori americani. Con tali messaggi di spaventosa rozzezza culturale e politica, il contromovimento di destra, regressivo e reazionario, che va dal Tea Party negli Usa ai Veri Finlandesi e altre formazioni europee, tra cui il Fronte nazionale in Francia, il Partito della libertà in Olanda, il Movimento per un'Ungheria migliore, la Lega Nord in Italia, è politicamente visibile, e ha acquisito un considerevole peso elettorale. Ha cioè trovato rapidamente, in pochi anni, una robusta rappresentanza politica che lo sta portando ad avere un ruolo significativo nei parlamenti della Ue. Basti pensare al caso italiano, ma anche all'Austria, l'Olanda, la Finlandia, l'Ungheria, persino la Svezia, dove queste formazioni ormai oscillano tra il 15 e il 20%. In generale, questo è il contromovimento che, richiamandosi allo stato di necessità causato dalla crisi, si presenta con una forma autoritaria e, quale che sia il nome di cui si veste, fascistizzante.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 138 | Posizione 2077-2112 |

D. Dunque nulla si muove a sinistra? R. Bisogna riconoscere che il contromovimento progressista, socialdemocratico (liberal negli Stati Uniti), che è sicuramente vasto e può contare su tante persone, compresi numerosi studiosi e centri di ricerca, non ha la visibilità politica, e meno che mai quella mediatica, del contromovimento di destra. Se si naviga in internet, si incontrano dozzine di siti progressisti, vicini agli antichi ideali socialdemocratici ed anche a nuove forme di liberalismo, ricchi di idee e programmi che riflettono una concezione del socialismo appropriato al XXI secolo. Ad onta di ciò, in termini di voti questa quota dell'elettorato è fuori gara, perché non ha ancora trovato una formazione politica che in qualche modo la rappresenti, né appare in grado di crearla da sola. Riassumendo: mentre è assai probabile che, in termini di potenziali elettori, il contromovimento progressista possa ormai contare su numeri ingenti, esso si presenta però talmente frammentato che i numeri del contromovimento regressivo o reazionario, forse minori in termini assoluti, finiscono per pesare di più perché hanno trovato la strada dell'ingresso in politica attraverso formazioni che li rappresentano nei parlamenti. D. Le manifestazioni di piazza contro i tagli allo Stato sociale che hanno avuto luogo in molti paesi a partire dall'autunno 2010 - imponente è stata quella di Londra e altre città britanniche a fine novembre 2011 - non costituiscono segni di un contromovimento di tipo progressista? R. Certamente sì. Non si erano mai viste a Londra tre o quattrocentomila persone protestare contro i tagli alla sanità o l'aumento delle tasse universitarie. Manifestazioni imponenti ci sono state anche in Italia, in Grecia, in Belgio e in altri paesi, come l'Irlanda, dove i tagli allo Stato sociale sono stati particolarmente pesanti. Senza dimenticare la Spagna, che tra i grandi paesi europei è tra quelli che più ha pagato le dissennatezze della bolla finanziaria, e il collasso delle banche con relativi salvataggi statali che ne è seguito. Possiamo dunque dire che in questo momento i due volti del contromovimento possibile - quello democratico e quello autoritario - risultano ambedue presenti. Però i movimenti di destra hanno ottenuto nelle elezioni politiche notevoli successi, che hanno portato il loro peso elettorale, in alcuni casi, ad essere determinante nella formazione dei governi. Laddove, sull'altro fronte, i movimenti progressisti appaiono ben lontani da simili affermazioni parlamentari. In sostanza esistono già delle formazioni politiche di destra le quali sanno raccogliere e tradurre in voti lo scontento, la frustrazione, la rabbia dinanzi agli effetti negativi della globalizzazione prima e poi ai tagli allo Stato sociale, ai bilanci austeri, agli interventi che insistono solo sulla necessità di tagliare la spesa sociale. Ricordiamo che dopo la Grecia sono andate al governo, nell'autunno del 2011, formazioni di centro-destra anche in Portogallo e in Spagna, per di più con un voto elettorale schiacciante. Viceversa, il contromovimento progressista sembra stentare parecchio a trovare adeguate espressioni politiche, perché è evidente che non può più riconoscersi nel vecchio labour post Tony Blair, meno ancora nella socialdemocrazia tedesca, e neppure nei partiti socialisti della Scandinavia. Al loro posto non si vede ancora quale formazione sia in grado di tradurre in domanda politica, e alla fine in voti elettorali, queste manifestazioni che hanno indubbiamente carattere progressista, nel senso che si oppongono alla demolizione dello Stato sociale. Le poche formazioni politiche che in astratto parrebbero avere la vocazione per raccogliere il messaggio e tradurlo in un numero determinante di voti, quali il Pd in Italia, appaiono tuttora decisamente al di sotto della capacità di farlo. Vi sono altresì situazioni contingenti. Eventi quali la doppia tragedia del Giappone nel 2011 possono influire sull'uno o sull'altro aspetto del contromovimento. In Germania, dopo lo tsunami e il dramma delle centrali nucleari in quel paese, i Verdi hanno ottenuto un grande successo, raddoppiando i loro voti e superando in alcuni Lander - l'abbiamo appena ricordato - addirittura il 25%. Di conseguenza il governo tedesco ha avviato quasi subito un programma di graduale dismissione delle centrali nucleari. Purtroppo si tratta di un effetto che non è detto che duri. La paura del nucleare non basta per riformare il sistema finanziario prima che affossi lo Stato sociale se non l'intera Ue. Resta il fatto che nel caso dei Verdi il malcontento e la preoccupazione hanno trovato una formazione politica capace di tradurli a breve termine in voti, in seggi da deputato, in peso parlamentare.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 139 | Posizione 2113-2126 |

D. Pur essendocene occupati a più riprese, vorrei qui richiamare ancora una volta funzione e ruolo degli intellettuali e dei luoghi dell'elaborazione del pensiero. È corretto parlare di un'assenza nel panorama italiano di luoghi di elaborazione di pensiero critico alternativo? R. Abbiamo ricordato che negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei esistono think tanks denominabili genericamente come socialdemocratici, i quali svolgono un lavoro di prim'ordine per far emergere le storture dell'economia e della politica contemporanee. Anche da noi ci sono alcuni siti di pensiero critico, alimentati da un certo numero di economisti ed esperti di altre discipline. Peraltro in essi raramente si va al di là della produzione di brevi articoli di qualcuno che la pensa diversamente dal mainstream del pensiero economico. Viceversa in altri paesi europei e negli Stati Uniti vengono prodotti di continuo saggi approfonditi, molti scritti da esperti che lavorano in enti istituzionali, i quali analizzano con un robusto taglio critico le cause della crisi e argomentano perché mai se non facciamo qualcosa ci avviciniamo a un'altra crisi gravissima, non solo economica ma anche sociale e politica. In Germania esistono fondazioni di orientamento socialdemocratico che producono sovente eccellenti rapporti per superare il capitalismo finanziario. Anche dal Regno Unito arrivano proposte di grande interesse per un'economia di transizione, anche industriale, capace di uscire dal binario forzato del fossile o del nuclear- fossile e di assicurare una prosperità diffusa. Per contro, nel nostro paese abbiamo sporadici studi della Banca d'Italia e di qualche dipartimento universitario, complessivamente assai poco se paragonati alle decine di centri che nei paesi sopra citati svolgono un vasto e intenso lavoro di ricerca. Da lì provengono le speranze di un contromovimento progressista, sebbene rispetto alle corazzate del pensiero neoliberale essi abbiano una presa elettorale limitata.

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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 140 | Posizione 2127-2140 |

D. Vi sono difficoltà di computo e di comparazione che sono intrinseche ai temi, ma che a volte possono venir fatte giocare intenzionalmente per far apparire il modello sociale europeo più oneroso di quanto effettivamente non sia. Si può parlare di un uso non sempre corretto delle statistiche disponibili allo scopo di sostenere le politiche varate? R. Sicuramente le statistiche sono usate per tentare di documentare la necessità di bilanci pubblici austeri che taglino soprattutto dal lato delle uscite, anziché ricercare nuove entrate. Vi sono casi clamorosi, come le ricorrenti denunce del passivo del bilancio dell'Inps, dovuto in realtà alle decine di miliardi di oneri assistenziali caricati impropriamente su di esso - dalle pensioni sociali agli interventi a sostegno della famiglia, dai trattamenti della disoccupazione a quelli degli invalidi civili - e non già alle casse previdenziali in senso stretto. Casse che vedono la principale, e cioè quella dei lavoratori dipendenti - gli stessi ai quali si vogliono tagliare le pensioni - solidamente in attivo (per ben 10 miliardi, stando al bilancio di previsione 2011, laddove la cassa dei dirigenti, ex Inpdai, risulta in passivo per oltre 3 miliardi). Si veda anche il rilievo dato al rapporto tra il numero di lavoratori in attività (che alimentano il flusso dei pagamenti pensionistici) e quello di coloro che percepiscono le pensioni, rapporto che si asserisce essere in via di peggioramento, laddove in realtà migliora da parecchi anni. Per contro l'unica cifra che si vede circolare, sui quotidiani e in tv, è l'eccesso della spesa, senza tener conto del fatto che - come ho già rilevato - i pensionati italiani, non solo quelli Inps, pagano le imposte come chiunque altro restituendo allo Stato una somma equivalente a 3 punti di Pil. Ragion per cui il bilancio pubblico ricava da essi, a parte gli oneri impropri e ad onta delle casse passive, una plusvalenza netta di oltre 25 miliardi l'anno.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 141 | Posizione 2148-2152 |

sull'opinione pubblica, che un giorno sì e l'altro pure vede pubblicato un articolo in cui si dice che tra un po' di anni le pensioni saranno insostenibili perché sono eccessive, sicché bisogna andare in direzione di un forte aumento dell'età pensionabile e, comunque, di un taglio delle pensioni. E nel quale si afferma che bisogna aumentare i cosiddetti coefficienti di invecchiamento perché ogni mese che si aggiunge alla speranza di vita deve esser compensato da un allungamento dell'età pensionistica, oppure da una riduzione dell'entità delle pensioni.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 143 | Posizione 2152-2180 |

Nel mese di aprile 2011 l'«Economist» dedicava la copertina (col titolo 70 or bust!, ossia "In pensione a 70 anni o salta tutto!") alla necessità di un aumento generalizzato dell'età pensionabile entro pochi anni, per raggiungere come minimo i 70 anni per uomini e donne. Affermazione, questa, fondata su statistiche che non stanno in piedi, del tipo: "il lavoro manifatturiero ormai non esiste quasi più, tutti sono addetti ai servizi e quindi si può lavorare tranquillamente fino a 70 anni". Il che dimostra un'ignoranza perfino sprezzante di che cosa sia il lavoro, sia per quanto riguarda la permanenza in molti paesi, compreso il nostro, di un ampio settore industriale, sia per quanto riguarda la fatica, l'usura e il peso di molti lavori nel settore dei servizi. Se uno avesse soltanto un'idea di come si lavora nel settore alberghiero, nella ristorazione rapida, nelle aziende di pulizia, nell'agroindustria e altri settori collegati, dovrebbe guardarsi dal proporre un aumento a 70 anni dell'età pensionabile, basandosi sulla convinzione che nei servizi tutti stiano seduti davanti a un computer e possano rimanerci fino all'estrema vecchiaia. Queste manipolazioni esplicite dell'opinione pubblica, a volte premeditate a volte no, rappresentano un fattore di rilievo quando si cerca di rendere plausibili i tagli al bilancio e in generale le politiche di austerità. Tuttavia un peso forse ancor più rilevante lo hanno le cose non dette e gli argomenti recati da dilettanti per caso. Ad esempio, negli articoli più o meno dotti sulla necessità di ridimensionare a ogni costo il modello sociale europeo, non emerge quasi mai che il deficit di bilancio della media dei paesi Ue - cresciuto di dieci volte tra il 2007 e il 2009, dallo 0,7 a circa il 7% (parlo di deficit, non di debito) - non è affatto dovuto all'aumento delle spese sociali. Le quali, in quel periodo, sono state praticamente le stesse, e si mantengono stabili da almeno una decina di anni. Il deficit suddetto è vistosamente aumentato perché sui bilanci statali si è ripercossa la crisi delle banche, il cui onere per i bilanci pubblici della Ue dal 2008 ad oggi, lo ricordo, viene stimato in circa 3 trilioni di euro. Pertanto affermare che i bilanci pubblici sono un disastro, e imputare questo disastro a un eccesso di spesa sociale, è un'argomentazione o incompetente o faziosa. Si veda la questione della crisi. Nei media non viene detto nulla di men che superficiale sul collasso dei gruppi finanziari della Ue, su come abbia pesato sui bilanci pubblici, e su come e quanto i comportamenti di grandi banche europee, a partire da quelle tedesche, abbiano contribuito allo squilibrio dei conti pubblici. A cominciare dai loro stessi bilanci, perché esse hanno avuto bisogno di centinaia di miliardi di pubblico denaro per compensare le cancellazioni di attivi indotte dai titoli tossici acquistati in Usa dalle banche europee in enormi quantità fino al 2008, perché stoltamente considerati a basso rischio; oppure fabbricati dalle stesse banche direttamente in casa. Quando compare qualche riflessione non banale sulla crisi di solito è confinata nelle pagine economiche dei quotidiani, o nei quotidiani economici, che una persona comune o non legge o non capisce, essendo tali pagine affatto illeggibili, piene di inutili anglicismi e di ragionamenti da addetti ai lavori - quasi che l'economia fosse unicamente una questione riservata a loro. Una analisi articolata di cosa sia stata la crisi, di quale peso abbia avuto sui bilanci dell'Unione europea, oltre che su quelli degli Stati Uniti, e perché dai bilanci disastrati dal sistema finanziario si debba passare a una austerità volta a colpire anzitutto lo Stato sociale, è praticamente introvabile. E così quel che non viene detto, o viene argomentato in modo interessato o incompetente, finisce per essere ancora più importante dell'uso disinvolto delle statistiche.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 144 | Posizione 2203-2207 |

Per unire la Ue non c'è bisogno di andare a cercare le sue lontane radici culturali, che pure ci sono, la comunanza dei linguaggi o altro. Esiste questo fattore primario che è lo Stato sociale. Esso può rappresentare un grande fattore unificante e al tempo stesso un sostegno solido dell'identità europea, perché ogni suo cittadino comprende il vantaggio di disporre di un sistema pubblico avente la finalità etico- politica di proteggere ciascuno dai principali rischi di un'ordinaria esistenza.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 145 | Posizione 2207-2214 |

Considero questo l'elemento di maggior peso, che occorre assolutamente difendere. I costi dell'essere umano sono così elevati, così imprevedibili per ogni individuo, così onerosi per le famiglie e per la persona quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di sopportarli sia assunta dalla società nel suo insieme, ovvero dallo Stato, come uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore né mediazioni al singolo individuo. È questa l'idea che, ad onta delle enormi differenze di storia, cultura, linguaggio o geografia che li dividono, può far crescere nei cittadini dell'Unione il senso profondo di far parte di un grande progetto di incivilimento, di progresso sociale, che non ha paragoni nel mondo. E porli in questo modo in condizione di affrontare le sfide che li attendono, a cominciare dalle riforme: quelle eventuali del modello sociale, ma anche quelle strutturali in campo economico e finanziario che appaiono ormai indispensabili per rendere (forse dovrei dire di nuovo) democraticamente governabile, e governata, l'Unione europea.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 150 | Posizione 2254-2300 |

R. Il lavoro flessibile è per diverse ragioni un'espressione della flessibilità del movimento del capitale all'epoca della finanziarizzazione, estesa non solo alle attività economiche tradizionali ma ad ogni immaginabile attività umana. Abbiamo già detto che dagli anni Ottanta in poi si sono accumulate con particolare rapidità masse colossali di capitali finanziari - si pensi ai 60 trilioni di dollari gestiti dagli investitori istituzionali che circolano nel mondo alla ricerca affannosa di rendimenti più elevati della media. Al solo enunciare questa finalità ci si dovrebbe fermare a riflettere, perché non si vede bene come tutti possano battere la media, conseguire cioè rendimenti superiori ad essa. Resta il fatto che i trilioni di capitali, in dollari o euro, che circolano in totale libertà per il mondo perseguono appunto tale scopo: ottenere il rendimento più alto possibile, che significa in genere più alto della media delle plusvalenze che si ottengono dalle transazioni speculative aventi per oggetto azioni, obbligazioni, polizze di credito, divise o derivati. La ricerca di rendimenti elevati estesa a tutto il mondo richiede un capitale altamente mobile, ossia impone che esso si muova con grande flessibilità. Un gestore di fondi o un trader devono essere in grado di spostare milioni di dollari o di euro non appena scorgano sullo schermo del loro computer la possibilità di conseguire un guadagno trasferendo capitali da un impiego ad un altro, da un pacchetto azionario o un fondo d'investimento a un altro. Un simile scambio si può fare ormai in pochi secondi perfino a mano, ovvero in millesimi di secondo quando sia un computer a captare l'opportunità di guadagno. Non si deve infatti trascurare che circa tre quarti delle transazioni borsistiche giornaliere aventi origine negli Usa, e la metà di quelle originate nella Ue, sono oggi interamente automatizzate. Questa ricerca di flessibilità del capitale, allo scopo di trovare in giro per le piazze finanziarie del mondo gli impieghi più redditizi, ha trascinato con sé la necessità di imporre anche alla forza lavoro la massima flessibilità. A fronte della estrema flessibilità del capitale, una grande impresa non può consentire che proseguano determinate attività industriali o di servizio, con il lavoro che le alimenta, quando esse appaiono avere rendimenti pari o inferiori alla media del settore. Altrimenti può succedere che un azionista di peso - che può essere un fondo comune di investimento, o magari un fondo pensione - decida di ritirare dall'oggi al domani i capitali investiti nell'impresa stessa. Il lavoro deve adeguarsi. Dal punto di vista della produzione capitalistica, ormai estesa a tutto il mondo, esso viene considerato nulla più di una voce di costo. In quest'ottica, la forza lavoro legata a produzioni di beni o di servizi che appaiono offrire un rendimento non soddisfacente al fiume di capitali che circola per il mondo deve essere di conseguenza abbandonata al più presto, sostituita, tagliata, ridotta. Naturalmente può anche verificarsi il contrario, e cioè che la forza lavoro debba essere ampliata per far fronte a un mercato che cresce, grazie a un'iniziativa finanziaria o industriale che mostra di avere successo. Ma poiché nulla è stabile nel mondo finanziarizzato, anche i nuovi posti di lavoro debbono essere instabili. Le occupazioni atipiche sono precisamente un modo per conseguire la massima flessibilità del lavoro, al fine di rispecchiare in misura soddisfacente la necessaria flessibilità di impieghi e di circolazione del capitale. Il lavoro a tempo indeterminato e a orario pieno implica complicate procedure di licenziamento e comunque conflitti sindacali e sociali. Viceversa, se si moltiplicano i contratti di breve durata, sia pure regolari, o i lavori che uno svolge soltanto su chiamata, il problema è superato. Infatti, quando convenga al datore di lavoro, basta non effettuare la chiamata, oppure non rinnovare il contratto occasionale o di collaborazione (o come si chiami nei diversi paesi che hanno inventato decine di tipi di lavoro flessibile). I governi italiani si sono molto adoperati, a partire dagli anni Novanta, nel moltiplicare le tipologie dei lavori flessibili, con i relativi contratti atipici. Il cosiddetto "pacchetto Treu", la legge che insieme ad altri provvedimenti ha introdotto il lavoro in affitto, è del 1997. Il decreto attuativo della legge 30 è del settembre 2003: combinandosi con le leggi precedenti, ha portato ad oltre 45 il numero di contratti atipici. Peraltro anche Francia, Germania e Gran Bretagna e vari paesi minori hanno moltiplicato in ogni modo la flessibilità dell'occupazione affinché la capacità del lavoro di compiere le flessioni richieste - chiamiamola così - assomigli sempre più alla rapidissima circolazione del capitale. E così il lavoro è stato assoggettato a una forma di rinnovata mercificazione. Il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale fu un periodo di demercificazione del lavoro, la cui epitome può leggersi nel primo articolo del rinnovato statuto dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Nel lontano 1944 esso stabiliva che "il lavoro non è una merce". La giurisprudenza e la legislazione hanno seguito fino agli anni Ottanta questo indirizzo. Ma all'inizio di quegli anni si è verificato un forte movimento di inversione ed è cominciato quello che anche molti autori dell'Organizzazione internazionale del lavoro definiscono un nuovo periodo di mercificazione del lavoro. Mercificare il lavoro significa che esso può e deve essere comprato, venduto, scambiato, affittato al pari di un qualsiasi arredo, una macchina, un utensile. È questo il principio che ha caratterizzato la situazione e le cosiddette riforme del mercato del lavoro, quali le leggi Hartz in Germania, soprattutto per quanto riguarda i giovani, negli ultimi quindici, vent'anni. Siamo ormai, nel nostro paese come pure in altri, dinanzi a un 75% di nuove assunzioni, ovvero di nuovi avviamenti al lavoro, che avvengono ogni anno con contratti di breve durata, agevolmente cancellabili o non rinnovabili, in sostanza affatto precari. Insomma, l'intera scena del mondo del lavoro è stata sconvolta per poter rendere i movimenti del lavoro il più possibile somiglianti ai movimenti del capitale in circolazione nel mondo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 152 | Posizione 2300-2327 |

D. Gli oneri che tale modo di organizzare il lavoro impone hanno un peso, un significato e anche una durata diversa a seconda del sistema lavorativo in cui il lavoratore dipendente è collocato; penso ad esempio a lavori ad elevata qualificazione e autonomia intrinseca che da varie forme di flessibilità potrebbero anche trarre vantaggio. R. Ciò in parte è vero, poiché per un certo periodo, ad esempio quando si è in possesso di capacità professionali che in quel momento appaiono scarse sul mercato del lavoro in genere o in uno specifico settore produttivo, e per di più si è giovani e non si fanno ancora progetti per il futuro, che appare lontano e sterminato, la flessibilità può anche essere ben accetta. Un biologo, un fisico, un informatico, che dispongano di approfondite conoscenze tecnologiche e scientifiche che in quel momento capita siano ricercate dai laboratori e dall'industria, possono trarre notevoli vantaggi dalla possibilità di accumulare diverse esperienze, combinare differenti periodi lavorativi, alternare periodi di lavoro e di studio. Ciò è possibile da un lato perché il reddito che la persona riesce a realizzare per qualche tempo è comunque relativamente elevato; dall'altro perché si tratta di un investimento professionale che renderà in futuro. Va però subito precisato che questa condizione può riguardare al massimo una ristretta quota dell'insieme dei lavoratori flessibili. È un errore farne il paradigma dei nuovi tipi di lavoro, perché se ne ricava una rappresentazione del tutto fuorviante. Per la gran massa dei lavoratori flessibilità non significa altro se non contratti di breve durata; reddito incerto; impossibilità di costruirsi un solido percorso professionale, con tutti gli effetti negativi che ne conseguono: una vita sotto la sferza della precarietà. Il tratto che accomuna gran parte dei lavori flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che - a rigor di dizionario - riassume due cose. Anzitutto l'essere in varia guisa, codesti lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei, soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l'etimo del termine "precario", sono lavori che bisogna pregare per ottenere. A volte in senso figurato, non di rado in senso materiale: una persona con un contratto di sei mesi prossimo a scadere e due figli da tirar su finisce per pregare letteralmente il datore di lavoro di rinnovarle il contratto. Il senso della precarietà dell'occupazione, la consapevolezza che, per quanto bene uno svolga il proprio lavoro, la durata e la qualità della sua occupazione non ne saranno quasi mai positivamente influenzate, più l'umiliazione di dover pregare qualcuno per continuare a lavorare, rientrano tra gli oneri che gli addetti a lavori flessibili collocano non solo tra i più pesanti, ma pure tra i più sgradevoli. In Italia come negli altri paesi avanzati, inoltre, tanto la flessibilità quanto gli oneri che ne derivano non colpiscono in modo differenziale soltanto i vari sistemi lavorativi, che si distinguono per il grado di qualificazione che richiedono, di razionalizzazione del lavoro, di autonomia consentita al prestatore d'opera. Entro ciascun sistema, la probabilità che il solo lavoro che si riesce a trovare sia un lavoro flessibile, che i suoi costi personali siano maggiormente gravosi, estesi e durevoli, è assai più elevata per le donne; per i giovani in cerca di occupazione sotto i 25 anni; per gli occupati che superano i 40-45 anni; per chi ha un titolo di studio basso; per chi vive in zone meno sviluppate del resto del paese; infine per gli immigrati. D'altra parte, non è una svista il fatto che l'Ilo collochi il lavoro atipico entro l'economia informale.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 158 | Posizione 2387-2414 |

R. In Italia, ma anche in altri paesi - basti pensare agli Stati Uniti, la terra delle opportunità, dell'american dream, dove non solo la mobilità sociale è sempre stata inferiore a quanto comunemente si creda, ma è oggi particolarmente bassa - la mobilità sociale nell'ultimo decennio si è ulteriormente ridotta. Le poche ricerche di cui si dispone dicono che la probabilità di trascorrere tutta la vita nella classe in cui si è nati è molto elevata: più del 40% di coloro che nascono in una determinata classe è destinato a restarvi per sempre, e un certo numero di appartenenti alle classi medie arriva anche a scendere nella scala sociale. Sarà qui opportuno distinguere tra mobilità diretta e mobilità indiretta, che i sociologi chiamano mobilità netta e mobilità lorda. La mobilità indiretta (lorda) è la mobilità di masse di persone che in forza dello sviluppo economico di un paese, piuttosto che per iniziativa personale, passano da una posizione sociale a un'altra, dove hanno un reddito, un peso politico e un prestigio superiore a quello che avevano in partenza. È quanto è avvenuto in misura notevole nell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Milioni di braccianti, di contadini, di addetti a lavori manuali non qualificati sono diventati nel giro di pochi anni operai, tecnici, commessi, addetti a vari tipi di servizi. I braccianti, ad esempio, che negli anni Cinquanta erano ancora milioni in Italia e lavoravano reclutati giorno per giorno dai caporali, in pochi anni sono scomparsi e sono diventati operai dell'industria. Oppure sono stati assunti da aziende agricole moderne, o sono diventati artigiani. Alla fine degli anni Ottanta, più del 60% degli italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni non faceva più parte della classe dei propri genitori ed aveva sperimentato un qualche tipo di mobilità sociale (sebbene molto spesso di breve raggio, cioè tra classi contigue). Si è trattato di un processo che ha indubbiamente ridisegnato su vasta scala le classi sociali e la loro composizione. Però è diverso dalla mobilità sociale cui ci si riferisce quando si pensa all'iniziativa personale che, fondata sul talento, sul lavoro duro, e magari su un po' di fortuna, permette di passare da operaio a imprenditore, da impiegato a dirigente, da commessa a insegnante di liceo. Quest'ultimo tipo di mobilità, definibile come mobilità diretta (o netta), ha subito un notevole rallentamento dopo gli anni Settanta e Ottanta. Fino ad allora il bracciante che diventava operaio riusciva a far studiare i figli i quali per tal via diventavano insegnanti. Oggi quegli insegnanti, giunti alla mezza età, devono fare i conti con un mercato del lavoro che rende incerta una ulteriore ascesa dei figli nella piramide sociale. Non solo: arriva a mettere in dubbio perfino che quei figli possano mantenere la posizione sociale raggiunta dalla famiglia d'origine. Questo avviene perché l'economia si è chiusa, si è contratto il mercato del lavoro, ridotta la domanda di professioni specializzate, e lo Stato si è trasformato da datore di lavoro di ultima istanza a licenziatore di prima istanza. Questo secondo tipo di mobilità consente di ragionare sulla fluidità sociale, sull'apertura di una società. Sotto questo aspetto l'Italia, al pari degli Stati Uniti, rivela un grado piuttosto alto di chiusura, misurata comparando la possibilità di soggetti che provengono da classi sociali differenti di arrivare ad una posizione più elevata. Siamo di fronte a società rigide, piuttosto che fluide. Le classi più avvantaggiate hanno accresciuto i propri vantaggi, mentre coloro che ne avevano già meno in partenza hanno visto accrescersi le distanze che li separano dall'alto.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano Gallino)
pagina 167 | Posizione 2538-2550 |

C'è poi il caso - più comune in alcune regioni e meno in altre, ma che comunque tocca una quota di popolazione piuttosto vasta - di chi da operaio è diventato piccolo imprenditore e che a causa della crisi, del taglio delle commesse, della restrizione dei canali del prestito si trova sull'orlo del fallimento o ha già dovuto dichiararlo. La situazione peggiore è quella di un piccolo imprenditore che ha lavorato da impiegato o da operaio ed è poi riuscito a mettere in piedi un'officina, un centro di servizi, un'impresa di costruzioni, e deve rendersi conto di essere costretto a licenziare i propri dipendenti perché l'impresa non regge più. Proprio per questo motivo vi sono state, soprattutto nel Nord-est del nostro paese, alcune decine di suicidi, il cui triste conto va aggiornato di continuo. Il suicidio è una resa dinanzi a qualcosa di incommensurabile, qualcosa che trasmette un senso insopportabile di sconfitta. Essere diventato imprenditore, da operaio che uno era, aver dato lavoro a molti compagni, o a giovani pieni di speranze, ed esser costretto a licenziare per gli effetti della crisi, è una situazione difficile da tollerare. Per molti è peggio che restare disoccupati. Qui, tutt'insieme, uno prova l'umiliazione dinanzi alla famiglia, il senso di sconfitta, il dolore di dover dire ai propri compagni dipendenti "non ce la faccio più a pagarti lo stipendio, devo licenziarti", "devo chiudere la fabbrica", "devo vendere". Alcuni fra questi imprenditori ex operai non hanno retto e si sono tolti la vita. È uno dei segni tangibili della mobilità sociale che si interrompe, non solo come speranza per i figli, ma nel corso della propria stessa esistenza.
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