La lotta di classe dopo la lotta di classe
(Luciano Gallino)
pagina 18 | Posizione 258-270 |
R. Anzitutto la classe capitalistica transnazionale
fruisce di un poderoso collante ideologico che è sostenuto da decine di
"serbatoi del pensiero", operanti soprattutto in Europa e negli Stati
Uniti. Essa possiede inoltre un grosso peso politico. Le leggi in tema di
politiche fiscali, de-regolazione della finanza, riforme del mercato del lavoro,
privatizzazione di beni comuni - dall'acqua ai trasporti pubblici - emanate in
diversi paesi dagli anni Ottanta in poi, e che oggi il Fondo monetario
internazionale (Fmi), la Banca centrale europea (Bce) e la Commissione europea
(Ce) vorrebbero imporre senza eccezioni a tutti i membri dell'Unione europea
(Ue), o quanto meno a quelli dell'eurozona, sono state una parte essenziale
della controffensiva a cui mi riferivo prima. Tale controffensiva non avrebbe
mai avuto il successo che ha avuto se non avesse potuto prender forma di e
appoggiarsi su leggi, decreti, normative e direttive che sono stati concepiti e
approvati appositamente dai parlamenti, sotto la spinta delle lobbies
industriali e finanziarie, in vista di un duplice scopo: indebolire il potere
delle classi lavoratrici e delle classi medie, e accrescere allo stesso tempo
il potere della classe dominante. A ciò vanno aggiunti i finanziamenti,
dell'ordine di centinaia di milioni l'anno, che dette lobbies erogano a favore
dei candidati alle elezioni politiche: mi riferisco a deputati, senatori e
presidenti della Repubblica - in quest'ultimo caso, ovviamente, nei paesi come
Usa e Francia dove il presidente viene eletto dal popolo - dei quali le
corporations industriali e finanziarie intendono assicurarsi la benevola
attenzione allorché saranno in carica.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 21 | Posizione 284-312 |
D. Per riferirsi ad un sistema virtuale
a partito unico, in cui si riflettono le politiche del mercato globale, quello
di Davos è stato definito un partito. R. In effetti, se si considera la loro
ampiezza e visibilità, gli incontri di Davos assomigliano molto alle assemblee
di un grande partito che guida la lotta di classe condotta a livello globale
dai vincitori contro gli sconfitti. Il messaggio che questo partito trasmette
annualmente è che l'economia mondiale può sì essere soggetta a disfunzioni
temporanee, capaci di recare problemi a un certo numero di lavoratori, ma sta
nell'interesse generale di questi contribuire - in primo luogo con la
cosiddetta "moderazione salariale", su cui ritornerò - a farla
ripartire al meglio. Più specificamente, una delle maggiori vittorie
ideologiche della classe capitalistica transnazionale, sorretta da una forte
componente parascientifica costituita da intellettuali e accademici, è stata
quella di rappresentare alle classi subalterne il funzionamento dell'economia
contemporanea, con le sue massicce componenti finanziarie, come se fosse il
migliore dei mondi possibili, ossia l'economia più efficiente che si possa
immaginare. Questo perché secondo i portavoce della classe dominante il
capitale affluisce sempre, tramite i mercati finanziari, dove il suo rendimento
è ottimale. Codesta teoria, nota come teoria macro-economica ortodossa,
dovrebbe contribuire sia a migliorare le sorti dei lavoratori nei paesi
sviluppati, sia a stimolare un rapido sviluppo dei paesi emergenti. Simile
rappresentazione ideologica ha avuto una tale presa da restare praticamente
immutata, nonostante le clamorose smentite cui la realtà l'ha esposta in tempi
recenti. La crisi innescatasi nel 2007, sullo sfondo pregresso di uno sviluppo
patologico del sistema finanziario, da un punto di vista rigorosamente
scientifico è stata una catastrofe per il pensiero dominante a Davos (ovvero
quello che Davos diffonde in tv, nei quotidiani, nelle università, nelle
scuole, e nei discorsi dei politici). La crisi infatti - anche quella che
continua a svolgersi in questo 2012, non sappiamo ancora con quali seguiti e in
quali paesi - ha dimostrato in modo categorico due cose: che i capitali non
vengono affatto allocati dai mercati nel modo più efficiente possibile, e che
sono soprattutto i lavoratori a pagare i costi quando la teoria va in pezzi,
insieme con le pratiche finanziarie che da essa discendono. Capitali
dell'ordine di trilioni di dollari sono stati investiti in complicatissimi
titoli compositi che le banche, non solo americane ma anche europee, hanno
creato e diffuso in un modo che si è rivelato disastrosamente inefficiente. O
meglio: che la crisi stessa ha mostrato essere inefficiente quanto rischioso. Dopodiché gli enti finanziari sono stati
salvati dal fallimento dai governi, sia tramite aiuti economici diretti (oltre
15 trilioni di dollari in Usa; 1,3 trilioni di sterline nel Regno Unito; almeno
un trilione di euro in Germania), sia indirettamente, forzando i paesi con un
elevato debito pubblico a pagare interessi astronomici sui titoli di Stato in
possesso degli enti medesimi. I quali sono in prevalenza banche francesi e
tedesche i cui bilanci sono stati disastrati sia dai titoli tossici (così detti
perché formati da crediti ormai considerati inesigibili) che
hanno creato a valanga o hanno acquistato in gran quantità negli anni Duemila,
sia da un eccesso di denaro preso in prestito da altre banche o dalle banche
centrali, al fine di concedere a loro volta fiumi di prestiti da portare fuori
bilancio. E così nei bilanci pubblici si sono aperti vuoti paurosi, per colmare
i quali si chiede non a chi ha causato la crisi, bensì ai lavoratori e alle
classi medie, di tirare la cinghia. È forse questa una delle espressioni più
crude e meno studiate della lotta di classe condotta dai vincitori contro i
perdenti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 22 | Posizione 323-327 |
D. In
quali modi viene condotta la lotta di classe nel mondo? R. Anzitutto per mezzo
di leggi, confezionate da governi e parlamenti, che sono intese, di là dalle
apparenze, a rafforzare la posizione e difendere gli interessi della classe
dominante, e a contrastare la possibilità che la classe operaia e la classe
media affermino i propri. Un modo tipico per condurre la lotta di classe
mediante la legge è la normativa fiscale.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 24 | Posizione 327-360 |
Negli ultimi decenni essa ha seguito due
strade: elevati sgravi fiscali a favore dei ricchi e forti riduzioni delle
imposte sulle società. L'effetto è stato quello di essiccare i bilanci pubblici
dal lato delle entrate, il che ha reso necessario - questo il singolare
ragionamento dei governi Ue - tagliare le spese di maggior utilità per i
lavoratori. Gli sgravi fiscali introdotti in diversi paesi a favore delle
classi ad alto reddito e di maggiore ricchezza hanno preso forma di una
sostanziale riduzione dell'aliquota marginale (vale a dire la percentuale di
imposta applicata alla porzione di reddito ricadente nell'ultimo scaglione) e
delle imposte sul patrimonio e i beni ereditari. Negli anni Cinquanta e
Sessanta del secolo scorso l'aliquota marginale sui redditi più alti era molto
elevata - in Usa superava l'80% - e contribuiva quindi notevolmente a
redistribuire il reddito. Per contro l'imposizione fiscale a carico delle
classi medie e dei lavoratori, cioè delle classi che per natura percepiscono
meno reddito e dispongono di scarse ricchezze, è rimasta costante o è
addirittura cresciuta a causa della dinamica dell'inflazione e di altri
processi. Negli
Stati Uniti, ad esempio, il presidente Bush all'inizio degli anni Duemila ha
introdotto degli sgravi fiscali che hanno permesso al 5-10% delle famiglie con
il reddito più alto di risparmiare ciascuna, in media, centinaia di migliaia di
dollari di imposte l'anno, mentre per il restante 90% della popolazione il
vantaggio fiscale si è aggirato intorno ai 1000 dollari o poco più. In Francia,
il presidente Sarkozy ha ridotto notevolmente sia la tassa sulle successioni
sia quella che si chiama l'imposta sulle grandi fortune. Anche qui, una
porzione della popolazione compresa tra il 5 e il 10% ha goduto di sgravi che
si sono aggirati in media sulle centinaia di migliaia di euro. A questo riguardo, nel 2010 è stato
pubblicato un rapporto destinato all'Assemblea francese, prodotto da uno degli
uffici interni dell'Assemblea stessa, in cui si notava che in dieci anni, dal
2000 al 2009, gli sgravi fiscali - concessi in misura quasi totale soprattutto
ai ricchi - avevano comportato tra i 101 e i 120 miliardi di euro di mancate
entrate. In dieci anni, questa somma colossale ha contribuito a svuotare le
casse dello Stato e a rendere perciò indispensabili - questa la conclusione del
governo - tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al personale della
pubblica amministrazione. Ciò allo scopo di ridurre un onere per lo Stato
che, così sostiene non solo il governo francese ma ogni governo di
centro-destra e parecchi di centro-sinistra (vedi i casi di Grecia e Spagna),
nella situazione attuale tutti debbono concorrere a ridurre. L'ironia delle
cifre vuole che in Francia i suddetti tagli dovrebbero ammontare, secondo
quanto ha dichiarato il primo ministro Francis Fillon ai primi di novembre
2011, a circa 100 miliardi... In Italia si può ricordare l'abolizione
dell'imposta comunale sugli immobili (Ici), di cui sicuramente molti cittadini
si sono rallegrati, ora ripristinata. Purtroppo, però, l'abolizione dell'Ici ha
svuotato per diversi anni le casse dei comuni, i quali a quei medesimi
cittadini hanno dovuto tagliare asili, scuole, servizi alla famiglia, trasporti
locali, assistenza alle famiglie svantaggiate. Un'altra forma di lotta di
classe per mezzo del fisco in Italia è consistita nella ripetuta serie di
condoni fiscali - ormai non si contano più - che sono stati un premio
elevatissimo, mai visto in nessun altro paese europeo, per chi non paga le
tasse; viceversa essi sono stati beffardamente punitivi per tutti coloro che,
vuoi per senso civico vuoi per l'impossibilità di sottrarsi, le tasse le
pagano. Vi sono anche paradossi nella normativa fiscale italiana. Essa stabilisce
che l'aliquota minima, quella che si paga su un reddito imponibile fino a
15.000 euro, è del 23%. L'aliquota sale al 27% per la fascia di reddito da 15 a
28.000 euro. Per contro l'aliquota unica applicabile sulle rendite da capitale
- che si guadagnano non dico dormendo, ma quasi, si tratti di opzioni sulle
azioni, di dividendi, o di aumento del valore delle stesse: è sempre denaro che
cresce senza dover lavorare - è stata per decenni solamente del 12,5%. È
l'aliquota più bassa che si sia mai vista nei paesi Ue, dove si è sempre andati
dal 20% in su quanto a imposta sulle rendite da capitali, persino nella Francia
di destra. Ora un decreto legge del 2011 ha elevato questa aliquota al 20% a
decorrere dal 1° gennaio 2012.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 26 | Posizione 369-387 |
Quanto alle imposte
sulle società, uno studio della KPMG, nota società di servizi finanziari
operante anche in Italia, condotto in 80 paesi e pubblicato nel 2010, mostra
come il tasso medio dell'imposizione
fiscale sia stato ridotto tra il 1995 e il 2010 dal 38 al 25%. Tra gli Stati più
generosi nei confronti delle società vi sono la Germania, che ha tagliato detto
tasso di 22 punti, dal 51,6 al 29,4%; la Grecia, che di punti ne ha tagliati 16
(dal 40 al 24%); l'Irlanda, che lo ha dimezzato, passando dal 24 al 12,5%; e
l'Italia, che lo ha ridotto di quasi 10 punti (dal 41,3 al 31,4%). Si noti
bene che quelli indicati sopra, pur ribassati, sono i tassi ufficiali di
imposizione fiscale. In realtà, un buon numero di società, in ogni paese,
paga assai meno, per diversi motivi. Anzitutto, nuove norme contabili hanno
permesso di calcolare le imposte effettivamente dovute in modo assai più
vantaggioso rispetto a due o tre lustri fa. In secondo luogo, le corporations
praticano su larga scala varie forme di elusione ed evasione fiscale. A tale
scopo le sedi legali di migliaia di consociate delle maggiori corporations
vengono registrate in qualche isola caraibica o della Manica: sono le
cosiddette "isole del tesoro", dove si pagano tasse minime. Infine
va ricordato che gran parte della loro produzione è stata delocalizzata in
paesi emergenti, per cui le imposte vengono pagate dalle società non nel paese
d'origine, bensì in questi paesi, dove sono di norma assai contenute. Negli Stati Uniti, ad esempio, l'aliquota
impositiva sulle società è rimasta immutata per decenni al 40%, ma alla nostra
epoca, grazie alla combinazione di nuove norme contabili, marchingegni elusivi
e delocalizzazioni, il gettito di tale imposta, che un tempo superava il 30%
delle entrate federali, nel 2010 si era ridotto a meno del 6%. Per gli
stessi motivi un calo di pari portata delle imposte pagate dalle corporations
si è registrato in Francia: le società il cui andamento si riflette nell'indice
borsistico Cac40, le maggiori del paese, contribuiscono oggi alle entrate
fiscali dello Stato soltanto per il 7%, rispetto al 30 che versavano anni fa. A
questo riguardo ha destato scalpore il caso della Total, gigante petrolifero, che
nel 2010 ha realizzato 12 miliardi di utili ma su di essi, in base alle leggi
vigenti, non ha pagato un euro di tasse nell'Esagono; si è limitata a versare
qualche milioncino di indennizzo per le comunità in cui operano i pochi
impianti rimasti in patria.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 27 | Posizione 389-409 |
R. Questi interventi in tema di imposte su individui
e società pongono di fronte non soltanto a una questione di giustizia sociale.
La destra suole infatti obiettare che anche se i ricchi diventano più ricchi, i
mediamente ricchi o i mediamente poveri non ricevono alcun danno dal fatto che
i primi si super-arricchiscano. Ma non è affatto vero. Anzitutto le minori
entrate fiscali comportano una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi
di protezione sociale, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti. In
proposito, dovremmo avere tutti sott'occhio il caso della Grecia, dell'Irlanda
e del nostro stesso paese. Accade però che dalle politiche fiscali pro ricchi
le classi economicamente inferiori traggano anche danni diretti, da diversi
punti di vista. Per intanto i patrimoni che si accrescono unicamente con altro
denaro, non direttamente guadagnato, in grandissima parte non vengono
trasformati affatto in investimenti produttivi che creano posti di lavoro,
ricchezza, infrastrutture; vengono impiegati piuttosto in ulteriori
investimenti finanziari. Il denaro accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce
andare in cerca di altro denaro investendo se stesso, anziché investire in
ricerca e sviluppo o, che so, nella scuola. E così, come ricordava il rapporto
francese citato prima, alle casse dello Stato dopo un po' di anni vengono a
mancare centinaia di miliardi, con la conseguenza che i governi aumentano le
tasse universitarie, riducono il numero degli insegnanti nella scuola,
trascurano gli investimenti infrastrutturali. Ma gli effetti negativi a danno
delle classi meno abbienti non finiscono qui. Succede che, data l'enorme
possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via
via cresciuta negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del
fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che le classi
lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più
permetterseli, o possono accedervi con molta maggiore fatica. Si pensi a quella
sorta di tassa sulla vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In
molte città dell'Unione europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite
finanziarie tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli
immobili ovvero gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati
talmente elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente
vi risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per la vita di una
città, che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle
loro esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si
tratta, quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più
ricchi. Il punto della questione a cui badare è un altro: il vantaggio fiscale
produce direttamente un peggioramento generale della qualità della vita delle
classi lavoratrici e delle classi medie.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 28 | Posizione 410-416 |
D. Quali altri modi vi sono per condurre la lotta di
classe dall'alto verso il basso utilizzando come strumento il processo
legislativo? R. Metterei in primo piano le politiche e le relative leggi che
nei paesi sviluppati, anziché combattere la disoccupazione e la povertà, le
sanciscono come mali inevitabili. Gli
Usa e la Ue hanno speso o impegnato almeno 18 trilioni di dollari per salvare
gli enti finanziari "troppo grandi per lasciarli fallire". Per
contro, allo scopo di rilanciare l'occupazione, gravemente colpita dalla Grande
Recessione, sono stati spesi pochi miliardi. In Italia la manovra economica
dell'agosto-settembre 2011 ha tagliato in tre anni 45 miliardi di servizi alle
famiglie, pensioni, sanità, trasporti pubblici, e non un solo euro è stato
destinato a creare direttamente occupazione. La stessa manovra è stata
ulteriormente inasprita a dicembre dal nuovo governo Monti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 29 | Posizione 431-433 |
In questo caso la lotta di classe ha preso
visibilmente la forma - ancora una volta attraverso la legge - del tentativo di
impedire che la pur modesta riforma di Obama potesse realizzarsi. E in questo
caso come in altri, la lotta di classe è stata condotta a colpi di centinaia di
milioni di dollari.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 30 | Posizione 439-460 |
D. Attraverso quali altre forme viene condotta la
lotta di classe nel mondo? R. Ci sono ancora altri modi in cui viene condotta
la lotta di classe nel mondo. Uno di questi consiste nell'espulsione dalla
terra dei contadini, in Africa in particolare, in America Latina, ma anche in
Asia, sia occidentale che orientale, dove si distingue soprattutto la Cina. I
contadini che da generazioni vivevano sulla terra e che in molti casi traevano
un livello di vita modesto anche se poco sicuro dalla loro attività di
coltivatori diretti, come si direbbe in Italia, sono accusati dai loro stessi
governi di non essere abbastanza produttivi, di non produrre per
l'esportazione, di non applicare le moderne tecnologie all'agricoltura, di non
praticare le colture che sui mercati nazionali e internazionali rendono di più.
Il risultato è che grandi corporations specializzate nella produzione di
alimenti o nel commercio dei medesimi - molte grandi corporations fanno l'una e
l'altra cosa - acquistano o affittano per 99 anni enormi superfici dell'ordine
di decine di milioni di ettari in numerosi paesi africani, in India, nelle
Filippine, in America Latina. Dopodiché vi introducono coltivazioni estensive,
di solito monocolturali, con un avanzamento fortissimo della meccanizzazione e
con la conseguente estromissione dei contadini che in quei campi lavoravano. Su
100 contadini espulsi - premesso che su una superficie di qualche migliaio di
ettari i contadini espulsi possono essere a loro volta migliaia - è possibile
che in un piccolo numero, diciamo il 5 o il 10%, vengano assunti come operai
dalle stesse imprese che li hanno cacciati dalle loro terre. Ma nella maggior
parte dei casi sono costretti a cercarsi un qualche tipo di occupazione in città,
per lo più nell'economia informale; molti vanno ad aumentare la popolazione
degli slums. E centinaia di migliaia rischiano di morire di fame e di
malattie: come è avvenuto in Somalia nel 2011, un disastro legato a doppio filo
alla concentrazione delle terre in mano a poche corporations. A proposito di
slums. Con tale termine ci si riferisce - è la definizione dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite (Onu) - ad abitazioni precarie, con pareti e tetti di
lamiera, cartongesso, compensato, quando non si tratti di semplici tende;
assenza di servizi sanitari; mancanza di acqua corrente, acqua potabile ed
elettricità; un forte tasso di affollamento (cioè tre o più persone per stanza,
posto che si possano chiamare stanze le ripartizioni interne di queste
abitazioni); una totale incertezza circa i titoli di proprietà. Gli slums
costituiscono situazioni di raccapricciante degrado, che hanno registrato uno
sviluppo immenso quanto rapido. Nelle megalopoli del mondo, cioè gli
agglomerati urbani con oltre cinque milioni di abitanti, negli anni Ottanta la
popolazione degli slums rappresentava grosso modo il 5%. Da qualche anno si
stima che abbia raggiunto il 20%, e che in media stia crescendo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 31 | Posizione 469-470 |
Ad oggi, più della metà della popolazione mondiale
risiede in città o agglomerati urbani; di questa metà, poco meno di un terzo
vive in slums.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 32 | Posizione 475-479 |
L'abitante degli slums è per definizione
privo di qualsiasi potere: perché non ha la possibilità, se non in misura
limitata, di cambiare abitazione; perché non ha il potere di intervenire sul
proprio reddito; perché non è in grado di mandare i figli a scuola; perché
nella maggior parte dei casi non può difendersi dalle intemperie, dal clima,
dalle malattie, e nemmeno dai piccoli potentati locali. Quello degli slums è
veramente un altro pianeta, che ricorda certi film del dopo-bomba, quando la
distruzione totale ha ridotto i sopravvissuti a un'esistenza a dir poco
primordiale, fatta di fame, violenza, astuzia e forza usata contro il più
debole.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 33 | Posizione 493-499 |
Il numero degli affamati nel mondo è
aumentato nel corso della crisi soprattutto a causa della speculazione che i
grandi gruppi finanziari e gli investitori istituzionali - di cui ho già
ricordato l'enorme peso economico -, alla ricerca di investimenti più sicuri,
hanno operato negli ultimi anni sui derivati, chiamati in gergo
"futuri". Si tratta di contratti che in origine obbligavano una parte
a vendere, e la controparte ad acquistare, una certa quantità di prodotto -
detto sottostante - a una data e a un prezzo prestabiliti. In realtà, essi si
sono sviluppati in modo tale che, al presente, meno del 5% delle due parti
vende o compra qualcosa: la grandissima maggioranza si limita a scommettere
sull'aumento o sulla riduzione di prezzo del sottostante.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 33 | Posizione 499-505 |
Gli speculatori si sono concentrati a più riprese su
quei futuri che hanno come entità sottostante i prezzi di alimenti di base:
grano, mais, riso, soia, sorgo. La speculazione sui futuri, che in prima
battuta causa soltanto l'aumento del valore dei relativi contratti, provoca poi
in rapida sequenza l'aumento del prezzo degli alimenti perché vengono
considerati dei battipista di quest'ultimo. Con il contributo del suddetto
processo, tra il 2005 e il 2008 gli aumenti dei generi alimentari sono andati
dal 70% del riso al 130% del grano. Sui mercati mondiali i prezzi sono in
seguito diminuiti, ma in molti paesi in via di sviluppo non sono scesi quasi
per niente. E dopo il 2010 hanno ricominciato a salire. Per i poverissimi, che
in quei paesi arrivano a destinare sino all'80% del reddito familiare agli
alimenti di base, gli effetti sono stati disastrosi.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 34 | Posizione 512-518 |
Ora, c'è
da chiedersi che razza di mondo sia quello che produce valore per 65.000
miliardi di dollari l'anno e non ne trova un centinaio - pari a un
seicentocinquantesimo del totale - per sconfiggere la povertà estrema e la
fame. I
governi dei paesi ricchi sostengono di avere le casse vuote. Tra questi, i
governi italiani si distinguono in modo particolare. Nella classifica
dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dei 23
paesi donatori per l'Aiuto pubblico allo sviluppo, l'Italia si colloca al
penultimo posto, avendo dedicato alla cooperazione allo sviluppo nel 2009 solo
lo 0,16% del prodotto interno lordo, molto lontano dall'obiettivo dello 0,5%
entro il 2010 e dello 0,7% entro il 2015, cui l'Italia ha più volte aderito
insieme agli altri paesi più industrializzati. Dietro di noi c'è solo la Corea.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 35 | Posizione 519-532 |
Anche questo si deve a una politica dei
governi attenta a non disturbare coloro che hanno un reddito elevato: in
qualche misura, infatti, se si decide di versare qualche miliardo per
combattere la povertà e la fame, o esso viene ulteriormente tolto ai sistemi di
protezione sociale che già si trovano sotto il tiro micidiale delle politiche
di austerità, oppure deve essere richiesto sotto forma di imposizione fiscale
alle classi più ricche. In un paese come l'Italia, ciò equivarrebbe a qualche
centinaio di euro all'anno per redditi al di sopra dei 200.000 euro circa. Un
prelievo di certo non punitivo per nessuno, che però appare impossibile da
realizzare. Per tre motivi: perché è una meta a cui non viene attribuito alcun
peso; perché coloro che denunciano un reddito del genere sono una frazione
minima di quelli che lo percepiscono davvero; e non da ultimo perché i
rappresentanti degli interessi della classe dominante sono la maggioranza in
parlamento. Per diverse vie le modeste risorse che vengono destinate a ridurre
in misura apprezzabile la povertà e la fame nel mondo rappresentano una forma
di lotta di classe. Una lotta indiretta, diversa dalla lotta fiscale, ma non
meno importante perché significa indifferenza totale per la sorte di miliardi
di persone. Ho citato altre volte la battuta di un personaggio che fu tempo
addietro presidente della Banca mondiale - quindi non propriamente un
sovversivo - e che si chiamava James Wolfensohn. Il quale ebbe a dire: quando
una metà del mondo all'ora di pranzo guarda in tv l'altra metà che sta morendo
di fame, la civiltà è giunta alla fine. Questa battuta tutto sommato è una
efficace epitome - o forse epitaffio - della lotta di classe condotta contro i
più poveri.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 36 | Posizione 540-546 |
D. Ti vengono in mente altre forme della lotta di
classe nel mondo, in aggiunta a quelle considerate sinora? R. Sì, certo: per
esempio quella che passa attraverso l'attacco ai sindacati, da tempo evidente
anche in Italia. Benché non siano propriamente una formazione politica, nel
trentennio del dopoguerra - come peraltro ho già ricordato - i sindacati hanno
avuto un peso significativo nel modificare la distribuzione dei redditi a
favore dei lavoratori dipendenti, e soprattutto nell'estendere i diritti dei
lavoratori. Proprio per queste due ragioni, i sindacati stanno subendo un forte
attacco da parte dei governi di centro-destra e perfino da parte dei governi di
centro-sinistra, in Europa, fin dagli anni Ottanta.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 38 | Posizione 574-578 |
Imprese americane ed europee di ogni dimensione sono
andate a costruire nuovi impianti nei paesi in via di sviluppo allo scopo di
conquistare più facilmente, producendo sul posto, i mercati locali; nel
contempo, hanno scoperto che conveniva produrre in questi paesi anche le merci
richieste dai mercati dei loro paesi d'origine. Pertanto, da oltre un decennio,
due terzi del commercio internazionale sono formati da merci che vengono
fabbricate a basso costo nei paesi emergenti da imprese controllate da
corporations americane ed europee e vengono poi "esportate" in Usa e
in Europa come se fossero prodotti originali di un'impresa straniera.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 38 | Posizione 579-580 |
L'Iphone, ad esempio, è composto da circa 140 pezzi
di cui nemmeno uno è fabbricato negli Usa.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 37 | Posizione 546-564 |
I governi hanno fatto il possibile per indebolire il
potere e anche la rappresentatività dei sindacati. Basti pensare agli interventi
di Margaret Thatcher, seguiti a quelli del presidente americano Ronald Reagan,
che a colpi di licenziamento di decine di migliaia di lavoratori in diversi
settori dell'economia hanno ottenuto un successo notevole nel ridurre
drasticamente il potere delle rappresentanze sindacali. Da qui è derivata in
Europa come in Usa una forte perdita di iscrizioni ai sindacati, soprattutto
nell'industria e nei servizi; un po' meno nel pubblico impiego. Si inserisce in
questo quadro anche la campagna in corso, scatenata in Italia da alcuni anni,
con il centro-destra che dipinge i sindacati come retrogradi, relitti di
un'epoca passata, istituzioni non più funzionali all'industria e ai servizi
moderni. Perfino gran parte del centro-sinistra sostiene che essi si debbano
"modernizzare", ossia debbano accettare qualsiasi condizione di
lavoro le imprese propongano loro. Tutto questo fa parte di una lotta di classe
che non attacca direttamente la classe, ma quello che, volere o no, ha
rappresentato fino ad oggi un suo importante baluardo. Nel nostro paese
l'ultimo pesante attacco legislativo al sindacato è stato condotto mediante un
articolo inserito nel decreto sulla manovra economica del settembre 2011. Esso
svuota di fatto sia i contratti nazionali collettivi di lavoro, sia l'intero
Statuto dei Lavoratori del 1970, poiché qualsiasi disposizione legislativa può
venire derogata se il sindacato più rappresentativo su base territoriale -
quindi anche un qualsiasi sindacato di comodo, o maggioritario solo in un
ristretto ambito territoriale - si accorda con l'azienda. Bisogna aggiungere
che una mano a indebolire il sindacato l'ha data anche la Corte di Giustizia
europea, un organismo le cui decisioni appaiono fortemente orientate
dall'ideologia neoliberale, sulla quale vorrei tornare più avanti. Essa si è più
volte pronunciata contro iniziative sindacali intese a ridurre il dumping
salariale tra i paesi Ue (per cui, ad esempio, un'impresa dell'Estonia che
lavora in Francia può pretendere legittimamente di pagare i lavoratori francesi
a tariffe estoni) o la violazione della legislazione sul lavoro del paese
ospitante, più avanzata, da parte di un'impresa ospite. Secondo la Corte in
parola ciò sarebbe contrario alla normativa del Mercato comune europeo, in
specie per quanto riguarda gli accordi sugli scambi di servizi. Sono infiniti i
campi della società in cui si può condurre la lotta di classe dall'alto verso
il basso.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 39 | Posizione 587-596 |
Per ridurre il potere di un avversario come la
classe operaia, non esiste mezzo migliore che togliere di mezzo le basi
materiali della sua esistenza. La classe operaia, il movimento dei lavoratori,
i sindacati nascono e si sviluppano in una situazione storica ben precisa: la
creazione e lo sviluppo nei paesi occidentali della fabbrica e di quelle sedi
dove i prodotti della fabbrica vengono venduti, l'insieme del cosiddetto
terziario (la distribuzione, il commercio, i servizi alle imprese e alle
famiglie). Quindi si è fatto il possibile per portar via le fabbriche dai
luoghi in cui esse avevano conosciuto il massimo sviluppo, e dove si era
affermato progressivamente il potere delle classi lavoratrici di incidere sulla
distribuzione del reddito, sul governo delle imprese, sull'organizzazione del
lavoro. In poche parole, dagli Stati Uniti e dall'Europa, che vuol dire
soprattutto l'Unione europea - e in particolare l'eurozona, che conta oggi 17
paesi, ed è quella economicamente più forte -, un gran numero di fabbriche e di
servizi che girano attorno ad esse è stato trasferito nei cosiddetti paesi
emergenti, dove sono state investite migliaia di miliardi di dollari per
realizzare impianti produttivi che avrebbero potuto essere tranquillamente
creati in gran parte nei paesi d'origine.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 40 | Posizione 597-606 |
R. In prima battuta, già negli anni Ottanta, i
cosiddetti "investimenti diretti all'estero" sono stati convogliati
soprattutto verso la Cina; altri imponenti flussi di capitali hanno preso la
strada verso India, Filippine, Indonesia, America Latina. Lo scopo iniziale è
stato ovunque il medesimo: poter disporre di una forza lavoro sottomessa,
flessibile, pagata cinque o dieci volte di meno che negli Usa o nella Ue,
praticamente priva di qualsiasi diritto (o meglio senza alcuna legge che
proteggesse i suoi diritti), con una presenza sindacale praticamente
inesistente e nessuna tutela ambientale. L'obiettivo, insomma, era quello di ottenere
una completa libertà d'azione nei paesi emergenti - una libertà d'azione
impossibile nei paesi d'origine (Stati Uniti ed Unione europea) dove le grandi
corporations erano e sono vincolate da una serie di leggi e di norme nate dalle
lotte operaie e dal movimento sindacale, oltre che dagli interventi, almeno per
qualche tempo, dei partiti socialdemocratici e democristiani. La Cina, prima, e
per certi aspetti anche l'India, in seguito, non sono paesi emersi
nell'economia mondiale unicamente con le proprie forze: sono stati in larga
misura una creatura dell'Occidente, con il quale solo più tardi hanno iniziato
a competere.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
- Le mie note a pagina 54 | Posizione 816 |
cfr. Weber. slum e etica protestante.. se non
fossero tenuti in condizioni miserevoli potrebbero ribellarsi
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 54 | Posizione 811-816 |
Quello che Marx non aveva colto appieno era che il
peso degli interessi materiali alla sopravvivenza, che si trasmettono di
generazione in generazione, non è una buona ricetta per fabbricare dei
rivoluzionari. In astratto, si potrebbe pensare che il miliardo di affamati del
mondo, in gran parte africani, ad un certo punto attraversi lo stretto di
Gibilterra e arrivi in Europa per invadere i supermercati, saccheggiare le città
e impadronirsi delle ricchezze dell'Occidente. In realtà, la grandissima
maggioranza di quel miliardo di affamati riesce a stento a sopravvivere sulla
propria terra, e non ha la forza, la volontà, né un progetto di vita che vada
oltre il procurarsi di che sopravvivere per sé e i propri figli, da un pasto
all'altro e da un giorno all'altro.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 56 | Posizione 836-845 |
D. Quale il nome di questa possessione? Quale
l'architetto del progetto - politico ed economico, come tu l'hai descritto -
che chiamiamo globalizzazione? R. È il neoliberalismo l'armatura ideologica
della controffensiva - da qualcuno definita appropriatamente come una forma di
reconquista, con riferimento alla crociata contro i "mori" iniziata
nel X secolo dai sovrani di Spagna e Portogallo - che la classe capitalistica
transnazionale ha avviato dopo che aveva perso terreno nei trent'anni
successivi al dopoguerra. Negli Stati Uniti essa ha dovuto sopportare l'ascesa
della classe operaia qualche anno in più, perché già durante il New Deal aveva
dovuto cedere qualche privilegio dopo la catastrofe che aveva provocato con le
sue stesse mani nel 1929. La reconquista è stata un'operazione sistematica,
condotta con metodi scientifici, con una disponibilità immensa di mezzi, e
avviata molto presto. Qualche storico delle ideologie sostiene che questo
elemento della controffensiva, cioè il piano ideologico che la sostiene, fosse
in corso fin dal 1950-1960, soprattutto ad opera di economisti neoliberali: in
primis la Scuola di Chicago (quella dei famosi Chicago Boys), la cui figura più
importante fu quella dell'iperliberale Milton Friedman.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 56 | Posizione 851-855 |
Anche se qualcuno, allorché nel 2009 la crisi
sembrava in via di risoluzione, ha annunciato con troppa fretta che il
liberismo (sinonimo di neoliberalismo, la versione fondamentalista e degenere
del pensiero liberale) era morto. Gradualmente tale ideologia è diventata una
teoria di ogni aspetto dell'esistenza: una teoria della scuola, della
comunicazione, dei beni comuni, della ricerca scientifica, degli insegnamenti
che l'università dovrebbe impartire (al fine, vale a dire, di formare anzitutto
manager e tecnici per l'industria, e naturalmente per il mondo finanziario).
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 58 | Posizione 881-882 |
Un docente dell'Università di Milano, Massimo
Florio, in un suo documentatissimo libro ha definito le privatizzazioni
britanniche dell'epoca Thatcher "la grande spoliazione".
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 59 | Posizione 883-892 |
Il guaio è che perfino i discendenti dei
partiti comunisti di un tempo hanno in pratica fatto proprio lo stesso modo di
ragionare sul mondo; il quale, a ben guardare, è il modo di ragionare
scientificamente costruito dai think tanks del pensiero neoliberale. Questa è
forse la più grande iattura capitata dopo il 1989 a quella che chiamiamo
genericamente la classe lavoratrice. Invece di transitare verso un'idea di
democrazia sociale, di socialismo democratico pre-Schroeder, che ripudiasse
certo gli errori e le nefandezze del socialismo reale, ma ne conservasse gli
ideali, le speranze e l'idea che un'esistenza più alta, più complessa e
intellettualmente più ricca è possibile, i fautori della Terza Via hanno
adottato in pieno il credo neoliberale e si sono limitati a cercare il modo di
indennizzare in modesta misura i perdenti della lotta di classe. Da questo
punto di vista oso affermare che non c'è molta differenza tra i teocon
compassionevoli che hanno sostenuto per due mandati George W. Bush e una parte
notevole dei partiti socialisti o socialdemocratici europei, con l'eccezione di
una piccola minoranza di politici o persone comuni che entro questi partiti
hanno il coraggio di collocarsi sul serio a sinistra e non temono di dirlo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 62 | Posizione 931-939 |
Il nostro paese paga, ad onta delle
analisi alla Bill Emmott prima richiamate, il fatto di non aver avuto per
decenni una politica industriale. Si veda quel che è accaduto nel settore
automobilistico. A metà degli anni Novanta il gruppo Volkswagen era poco più
grande del gruppo Fiat. Nel 2010 ha prodotto quattro volte di più sul piano
mondiale (7,3 milioni di vetture contro 1,8) e poco meno, in proporzione, sul
territorio nazionale (2,3 milioni di vetture contro le 564.000 del Lingotto).
Lo stesso anno ha investito in ricerca e sviluppo 20 miliardi di euro, contro
l' 1,9 della Fiat. La Volkswagen, inoltre, paga salari doppi rispetto al
Lingotto, e nel pieno della crisi non ha licenziato nessuno; invece di mandare
a casa i lavoratori, ha applicato forme articolate di redistribuzione degli
orari di lavoro, d'intesa con i sindacati, con una riduzione minima dei salari
(circa il 4%). Evidentemente la Germania ha saputo costruire, sul piano
politico ed economico, delle alternative che in Italia sono state invece
cancellate. La globalizzazione, parrebbe, non è uguale per tutti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 95 | Posizione 1434-1450 |
D. Ai nostri giorni la crisi economica
ha portato di nuovo in auge l'idea di un complotto attuato dalla finanza
internazionale, ovvero dai cosiddetti "poteri forti", da essa ordito
contro i governi nazionali e la popolazione della Ue per sottomettere gli uni e
l'altra ai suoi voleri e interessi. Si può dire che la classe capitalistica
transnazionale sia la matrice di un simile complotto, magari elaborato poi nei
dettagli dai think tanks richiamati sopra? R. L'idea di un complotto alla
radice della crisi è tipicamente di destra, se non anzi di estrema destra.
Durante gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la propaganda dei nazisti e
dei fascisti abbondava di invettive contro il complotto della plutocrazia, cioè
del "governo dei ricchi", della finanza internazionale e dei
banchieri, delle quali sarà superfluo ricordare le connotazioni antiebraiche.
Poche persone chiuse nelle loro stanze, che cospirano per asservire i popoli,
come le dipingevano le vignette dei giornali dell'epoca. Ora quella stessa idea
sembra ritornare, alimentata anche dalla crisi e dalle politiche di austerità
di cui torneremo ad occuparci più avanti. Il fatto è che, essendo egemone nel
senso gramsciano del termine, la classe capitalistica transnazionale non ha
bisogno di alcun complotto per agire come vuole sul terreno economico e
politico (a dire il vero con qualche eccezione: il colpo di Stato in Cile
contro il governo legittimo di Salvador Allende nel 1973 fu in effetti l'esito
di un complotto). È una classe i cui membri interpretano la stessa parte, sia
pure con differenze di abilità e di stile, indipendentemente dalla nazionalità:
parlano lo stesso linguaggio, quello dell'ortodossia neoliberale, e con il
medesimo di sicuro pensano; hanno innumerevoli occasioni e luoghi di incontro.
Una parte che è quella assegnata loro dalla struttura economica che la esprime
e che elargisce loro incentivi stellari non meno che dure punizioni se compiono
errori nel corso della recita. È una classe che gode di un potere mai visto
nella storia. Ed è circondata dal consenso di centinaia di milioni di persone,
che essa stessa ha impiegato decenni a costruire. Perché mai i suoi componenti
dovrebbero prendersi la briga di inventare un complotto?
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 96 | Posizione 1450-1470 |
D. Se la classe capitalistica transnazionale è una
classe per la quale è fondamentale la produzione ideologica, è inevitabile, a
questo punto, richiamare il ruolo degli intellettuali. R. Non ne dubito.
Rispetto a quanto detto in tema di egemonia vincente e progetto di egemonia
perdente, credo che una responsabilità spiccata ce l'abbiano gli intellettuali,
soprattutto gli accademici. Diversamente da altre frazioni della classe media,
la loro collocazione professionale li vede tuttora in posizione relativamente
privilegiata, sia sotto il profilo economico sia sotto quello del prestigio e
del pubblico che possono raggiungere tramite i media. Sarebbe una posizione
ideale per alzare la voce nei confronti del potere. Ciò nonostante la maggior
parte degli accademici, tanto nelle nostre quanto nelle università di altri
paesi, in Europa come negli Stati Uniti, non pare aver compiuto in questi anni
grandi sforzi per sviluppare forme di analisi critica e di riprogettazione
politica - per quanto attiene, ad esempio, allo Stato sociale - atte a
contrastare il pensiero neoliberale. Anche nei casi in cui dicono tra loro di
non condividerla affatto. Molti di loro hanno preferito alimentare con la loro
dottrina i think tanks neoliberali, oppure lasciar da parte l'impegno a
dimostrare che tutto ciò che è potrebbe essere differente - che è l'essenza del
pensiero critico. Non v'è dubbio che i think tanks in questione possano offrire
maggiori gratificazioni non solo riguardo allo stipendio, ma anche riguardo ai
fondi su cui un accademico critico può contare nella sua facoltà o
dipartimento. Questi, infatti, se dà a vedere di voler uscire dal pensiero
ortodosso, difficilmente riesce ad ottenere risorse cospicue per condurre i
suoi studi. Avviene in tutte le università dell'Occidente. E non solo nel campo
delle ricerche economiche, ma pure in campo politico, storico, sociologico,
filosofico. Alla fine, sebbene si trovino in una posizione di relativo agio e
discreta indipendenza, è piuttosto piccolo il numero di universitari che ha
approfittato di tale posizione per provare a contrastare sul piano del metodo,
della ricerca e della critica le dottrine neoliberali - dottrine che hanno
fatto breccia in infinite menti. A cominciare da quelle dei loro studenti. Non
arriverei a parlare di una rinnovata trahison des clercs, ma per certi aspetti
questo strato sociale, la frazione della classe media e medio-alta costituita
dagli accademici, è venuto meno in parte consistente a quelli che in astratto
sembravano essere i suoi doveri, i principi da difendere rispetto a ciò che
stava accadendo nel mondo politico e nell'economia dei nostri paesi e di quelli
emergenti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 102 | Posizione 1556-1564 |
Nel periodo 1976-2006 la quota salari, cioè
l'incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (ivi compreso il reddito da lavoro
autonomo, il quale viene calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa
paga dei salariati), si è abbassata di molto. Facendo riferimento ai 15 paesi
più ricchi dell'Ocse detta quota è calata in media di 10 punti, passando dal 68
al 58% del Pil. In Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%.
Per i lavoratori equivale a una colossale perdita di reddito, perché oggi un
punto di Pil vale, per l'Italia, circa 16 miliardi di euro. Ne consegue che 15
punti di Pil, se fossero calcolati sul Pil di oggi e in moneta corrente,
ammonterebbero a 240 miliardi di euro, che sarebbero distribuiti tra tutti i
lavoratori (compresi, ripeto, i lavoratori autonomi, questo prevedendo il
metodo di calcolo Ocse). Si è talora sostenuto che questo enorme calo della
quota salari sia dovuto ad un incremento dell'imposizione fiscale e più in
generale dei cosiddetti prelievi o contributi obbligatori. Un esame delle voci
che compongono il Pil dice che non è affatto così: la maggior parte di quei
punti sottratti alle classi lavoratrici, e in buona parte anche alle classi
medie, è andata alle rendite e ai profitti.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 107 | Posizione 1628-1635 |
In Italia, i 5 decimi della parte
inferiore della scala, cioè la metà della popolazione, posseggono in tutto
soltanto il 10% della ricchezza nazionale, mentre il decimo più ricco detiene,
da solo, circa il 50% di essa. Il nostro paese si distingue inoltre per numero
insolitamente elevato dei milionari in dollari, quelli al vertice della
piramide. Essi rappresentano ben il 6% del totale mondo, un punto in più a
paragone di Francia e Germania (sempre secondo il rapporto del Credit Suisse).
Tale quota corrisponde a 1,5 milioni d'individui sui 24,2 al vertice. Il che
induce a far qualche rozzo calcolo. Se il patrimonio di questi individui
"ad alto valore netto", di cui 1 milione di dollari è il limite
inferiore ma l'entità media è considerevolmente più alta, fosse stato
assoggettato a una risibile patrimoniale permanente di 3000 euro in media, si
sarebbero raccolti 4,5 miliardi l'anno. Una cifra grosso modo equivalente ai
tagli della pensione dei lavoratori dipendenti decisi dal neo governo Monti nel
dicembre 2011.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 112 | Posizione 1694-1706 |
Vi sono però altri fattori, in parte già ricordati.
Le politiche fiscali, per esempio: abbiamo rilevato in precedenza che l'Italia è
l'unico paese in cui il salario, la retribuzione dei lavoratori dipendenti,
viene tassato con un'aliquota iniziale del 23%, mentre i guadagni da capitale
sono stati tassati per lungo tempo al 12,5%, aliquota portata al 20 solo da un
decreto legge nell'autunno 2011. Dato
l'enorme sviluppo negli ultimi trent'anni dell'attività finanziaria, ciò ha
favorito la concentrazione dei redditi verso l'alto, mentre i salari - a
differenza di altri paesi Ue - sono apparsi stagnanti. In termini reali, cioè
depurati dell'inflazione, in Italia i salari sono aumentati di pochi punti
percentuali (tra i 3 e i 5) rispetto al 1995, mentre in Francia, Germania,
Regno Unito, essi sono aumentati tra il 15 e il 25% nello stesso periodo di tempo.
A questo proposito la dice lunga la distribuzione del prelievo fiscale in forma
di imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Alla fine degli anni
Ottanta le entrate Irpef da lavoro dipendente costituivano il 40% delle entrate
totali derivanti da questa imposta. Al presente, sono salite al 60%. Per contro
la quota di Irpef derivante da lavoro non dipendente (quello di imprenditori,
commercianti, professionisti, artigiani e simili) si è ridotta da poco meno del
38 a circa il 10%. Si aggiunga che il restante 30% dell'Irpef è pagato dai
pensionati - i quali per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti -
sicché essi restituiscono allo Stato sotto forma di Irpef circa 3 punti di Pil,
pari nel 2009 a oltre 45 miliardi. Sarebbero questi i parassiti che hanno
portato ad un aggravamento smodato del debito pubblico.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 116 | Posizione 1773-1779 |
Ad esempio in Germania, il paese degli
alti salari, nel 2009 i lavoratori poveri secondo la definizione Ocse erano il
22,7% degli occupati, pari a 6,5 milioni di persone, e guadagnavano in media 6
euro lordi all'ora, ovvero 800 euro lordi al mese. La medesima categoria di
lavoratori toccava il 25% negli Usa, il 21,7 nel Regno Unito, il 17,6 in
Olanda; solamente il 10,1% in Francia, grazie anche al "reddito di
solidarietà attiva" che in questo paese viene erogato, oltre che a
soggetti inoccupati e a disoccupati privi di altre fonti di reddito, agli
occupati a basso salario. Va inoltre notato che in Germania, dove il lavoratore
specializzato del settore meccanico ha redditi dell'ordine di 2500-2700 euro al
mese (cioè più del doppio di quelli italiani), vi sono anche parecchi milioni
di cosiddetti minijobs, cioè lavori da non più di 15 ore alla settimana, pagati
a forfait, che danno luogo a un reddito mensile intorno ai 500 euro.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 122 | Posizione 1843-1862 |
Un aspetto incongruo delle politiche di austerità,
le quali sono in sé politiche arcignamente di destra, è che vengono sovente
condotte da governi di centro-sinistra, oppure da governi di centro-destra
eredi dimentichi di quelle politiche democristiane che hanno contribuito non poco
a sviluppare lo Stato sociale. Per quanto attiene al primo caso, si veda cos'è
accaduto in Grecia, in Spagna, in Portogallo. In questi paesi i governi
socialisti e socialdemocratici al potere, sinché sono durati, dapprima hanno
mentito ai loro stessi elettori sulle cause della crisi (e quando non mentivano
mostravano di non aver capito assolutamente le radici profonde di essa);
dopodiché hanno imposto a suon di colpi
di maggioranza parlamentare misure di austerità intrinsecamente di destra.
Ridurre a ogni costo la spesa pubblica; avviare un piano di privatizzazioni dei
servizi pubblici; vendere al miglior offerente il patrimonio terriero e
immobiliare dello Stato; modernizzare il sistema di welfare e le relazioni
sindacali, che significa in realtà far arretrare di decenni sia il primo che le
seconde: sono tutte ricette di destra che la crisi iniziata nel 2007 ha
contraddetto in ogni possibile modo, ma che parecchi governi Ue, combinando
ideologia liberista, incompetenza e a volte una buona dose di ipocrisia, hanno
ora rispolverato come fossero rimedi alla crisi. Non parlo a caso di ipocrisia.
Si pensi al governo tedesco, con la sua pretesa di imporre ai paesi membri di
adottare severi tagli allo Stato sociale in ossequio alla sacralità del
bilancio in pareggio e al dovere di porre fine a decenni di spese pubbliche
eccessive. In realtà, il suo scopo ultimo è quello di salvare le banche
tedesche, che sin dai primi anni 2000 sono tra le più malandate della Ue.
Soltanto il fallimento della Hypo Real Estate, nel 2009, è costato allo Stato
federale più di 100 miliardi di euro. Altri 40 sono stati iniettati nel suo
bilancio nell'autunno del 2010. Sarebbe facile citare altri casi simili. Vi
sono poi le banche regionali, quasi tutte a maggioranza pubblica. Secondo una
stima di fine 2009 del BaFin, l'ente di sorveglianza dei servizi finanziari, il
settore bancario pubblico tedesco era esposto a rischi di investimento e di
insolvenza da parte dei creditori per un totale di 355 miliardi. Da allora sono
in corso affannose campagne di ristrutturazioni organizzative e finanziarie,
anche a colpi di fusioni e acquisizioni, per tentare di rimettere in sesto le
suddette banche, che costituiscono ben 15 delle 20 maggiori banche tedesche. In
altre parole, gratta i proclami sull'austerità da perseguire, e trovi bilanci
di enti finanziari in dubbie condizioni da salvare.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 123 | Posizione 1862-1873 |
Altro paradosso: la diagnosi giusta, riassumibile
nella formula "l'austerità impicca l'economia", sta diventando un
grido di destra. Nell'estate 2011, in Grecia, il capo dell'opposizione Antonis
Samaras, rappresentante dell'ultra destra, ha raccolto nelle piazze decine di
migliaia di persone denunciando l'austerità che la maggioranza
socialdemocratica (risicata, ma pur sempre maggioranza) voleva imporre, col
rischio di aggravare la recessione e di condannare gran parte della popolazione
a decenni di povertà. Un messaggio di sinistra viene lanciato dal leader della
destra e fa presa su elettorati di destra, come mostra il successo delle
formazioni di orientamento simile presenti in decine di paesi europei. Di
fatto, poco dopo, il governo socialdemocratico di Papandreu è caduto per essere
sostituito da un governo di destra, di cui fanno parte anche ministri dal
passato inequivocabilmente fascista. Pensiamo anche ai democristiani in
Germania: si tratta della formazione politica che a suo tempo ha dato un
significativo contributo allo sviluppo dello Stato sociale tedesco, durante la
ricostruzione e nei lustri (se non decenni) seguenti. Ora eccola che impone
tagli, restrizioni e misure che portano chiaramente all'impoverimento delle
classi lavoratrici e medie e che rischiano di creare seri problemi all'economia
- anche se la Germania al momento vive sull'enorme eccedenza delle esportazioni
proprie grazie al deficit delle medesime che fan registrare gli altri paesi Ue.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 126 | Posizione 1905-1924 |
R. È innegabile che le coordinate dello Stato
sociale in Europa siano diverse da un paese all'altro. In particolare sono
diverse tra i paesi dell'eurozona, ora saliti a 17, i maggiori dei quali hanno
inventato e sviluppato questo modello fin dai primi anni del dopoguerra, e i
paesi che invece sono entrati nell'Unione solo di recente. Si tratta - come tu
noti - di paesi in cui esisteva un altro modello, quello del socialismo reale,
il quale presentava già qualche aspetto del modello sociale europeo, perché
garantiva sicurezza quanto a occupazione, istruzione fino ai livelli superiori,
previdenza, sanità. Dopo il crollo dei rispettivi regimi, esso è stato prima
travolto dalle privatizzazioni selvagge guidate dagli economisti ultraliberali
americani (diversi dei quali fanno o hanno fatto parte dello staff economico
del presidente Obama) e poi faticosamente ricomposto in una certa misura; in
ogni caso appare molto meno sviluppato di quanto non siano quelli di Italia,
Francia, Germania, Regno Unito. Resta vero, comunque, che non si può parlare di
un unico modello di Stato sociale. Pensiamo ai servizi alla famiglia, ad
esempio, che sono notevolmente sviluppati in paesi come la Danimarca e nei
paesi scandinavi in generale, mentre sono assai carenti in paesi come il
nostro. Ciò nonostante, nel loro insieme i paesi europei, in specie quelli
dell'Europa occidentale, hanno condiviso per decenni forme di Stato sociale che
hanno la funzione di proteggere persone e famiglie da quei cinque o sei tipi di
avversità già ricordati, dalla povertà alla vecchiaia, dall'incidente alla
malattia e alla disoccupazione. Tali diverse forme di Stato sociale hanno
costituito sino ad oggi un robusto baluardo per contenere gli elevati costi
umani e sociali della crisi apertasi nel 2007. Nella Ue ancora non si vedono
decine di milioni di persone la cui sussistenza dipende dai bollini alimentari
mensili erogati dallo Stato, come purtroppo avviene negli Stati Uniti. Né vi
sono decine di milioni di persone impossibilitate a ricevere, in caso di
bisogno, un'adeguata assistenza sanitaria perché non potrebbero mai pagare
un'assicurazione da parecchie migliaia di euro l'anno. È un paradosso
dell'Unione europea che, dopo aver eretto questa sorta di grande edificio
civile a partire nientemeno che dagli anni Quaranta, quando era ancora in corso
la seconda guerra mondiale, i paesi membri abbiano iniziato una campagna che,
se non è ancora di vera e propria demolizione del modello sociale europeo, comincia
pericolosamente ad assomigliargli.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 127 | Posizione 1925-1933 |
R. Il paradosso risiede nel fatto che da un lato
abbiamo la crisi dei bilanci statali, con l'aumento del deficit, cresciuto di
dieci volte in pochi anni, e il corrispettivo aumento del debito pubblico;
dall'altro accade che i paesi europei, tanto quelli governati da forze
politiche di destra o di centro-destra quanto quelli governati da forze di
centro-sinistra, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore per
risanare i bilanci consista nel tagliare la spesa inerente alle varie
componenti dello Stato sociale. La lotta di classe è evidente nel fatto che i
paesi europei nel loro complesso, come ho già ricordato, hanno speso o
impegnato circa tre trilioni di euro (compreso il Regno Unito, una volta fatta
la conversione dalla sterlina all'euro) per salvare le banche e in generale le
istituzioni finanziarie in crisi, dopodiché per risanare i bilanci han pensato
bene di effettuare massicci tagli allo Stato sociale. Giustificandoli perché
saremmo di fronte a un insostenibile eccesso della spesa per pensioni, sanità,
famiglie, sostegno al reddito e assistenza agli invalidi.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 128 | Posizione 1948-1961 |
Alla fine l'austerità necessaria per risanare i
bilanci pubblici viene concentrata unicamente sulle spese necessarie per
sostenere lo Stato sociale. Non già sul complesso delle spese, come attesta fra
tante altre voci di bilancio la decisione del nuovo governo italiano presieduto
da Mario Monti di continuare a spendere svariati miliardi al fine di acquistare
aerei o navi da combattimento, per difendersi non si sa da chi. O per realizzare
grandi opere prive di ogni razionalità tecnica o economica, come la Tav
Torino-Lione o la Milano-Genova, la cui esigenza sarebbe imposta in ambedue i
casi da un aumento del traffico merci. Prova tu a spiegare da quale paese
arrivino le minacce, o perché gli abiti arrivati dall'India via mare o i
formaggi francesi dovrebbero, seppure i loro container lo permettessero,
viaggiare a 300 km all'ora. Simili impuntature, dalle quali appare sin troppo
scoperto se non il disinteresse per le condizioni di vita e di lavoro dei più,
quanto meno una loro scarsa conoscenza, hanno come primo risultato di
accrescere le tensioni sociali, i risentimenti, la frustrazione. Stati d'animo
che non si può mai prevedere quale orientamento, anche politico, possano
prendere. C'è poi una seconda conseguenza: tagliando le spese per l'istruzione
pubblica o aumentandone i costi diretti e indiretti (e dunque rendendone in
ambedue i casi l'accesso più difficile); assottigliando ulteriormente i fondi
per la ricerca; riducendo le ore di insegnamento nelle scuole superiori;
aumentando le tasse per l'istruzione universitaria, l'Unione europea finirà per
produrre una generazione di persone in complesso meno istruite. In Italia si è
arrivati addirittura al punto di abbassare l'età dell'obbligo scolastico da 16
a 15 anni, in forza di un articolo del "Collegato lavoro" della legge
finanziaria 2010.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 132 | Posizione 1975-2012 |
R. Le entrate sono considerevolmente scese col
tempo, per quanto riguarda i bilanci pubblici, a causa delle politiche fiscali
che abbiamo ricordato. Ma dal lato delle entrate bisogna pure tornare a
sottolineare il fatto che le imposte nel loro complesso le pagano soprattutto
le classi lavoratrici e le classi medie. Basti pensare al caso italiano, in cui
- rammentiamolo per buona memoria - oltre il 90% dell'Irpef viene pagato dai
lavoratori dipendenti: più precisamente per circa il 60% da quelli in attività
e per il 30% dai pensionati. Tutti gli altri, commercianti e artigiani,
imprenditori e professionisti, che rappresentano oltre un quarto della
popolazione attiva, versano meno del 10% delle imposte personali sul reddito.
In sostanza quello che viene presentato come un deficit dovuto all'eccesso di
spesa per pensioni, sanità, istruzione, è in realtà un deficit delle entrate
costruito dalla politica negli ultimi decenni. Il caso italiano si ritrova in
altri paesi: cifre analoghe si hanno ad esempio in Germania, con la differenza
che in quel paese i salari sono più alti e i pensionati pagano tasse ridotte,
mentre da noi le pagano nella stessa misura dei lavoratori in attività. Poi c'è
il fatto, sul quale ci siamo già dilungati ma che è opportuno qui richiamare,
che le imposte sulle imprese sono state notevolmente abbassate nell'eurozona
negli ultimi quindici anni. Mediante simile competizione fiscale gli Stati
cercano di attirare sul loro territorio nuove imprese, ma così facendo scavano
voragini nei loro bilanci. Esemplare al riguardo è stato il caso dell'Irlanda.
Ricordo inoltre che si parla sempre di aliquote teoriche, perché bisogna poi
vedere chi, come, dove e quando paga effettivamente le imposte. Molte imprese
le pagano in misura inferiore a quella teorica, grazie a due meccanismi:
mostrano di conseguire o effettivamente realizzano gli utili all'estero, e/o
insediano migliaia di sussidiarie o di società di scopo, tipo i
"veicoli" delle grandi banche, nei paradisi fiscali. In ambedue i
casi pagano imposte effettive minime, che comunque vengono sottratte allo Stato
d'origine. Un elenco aggiornato di paradisi fiscali comprende poco meno di
cento paesi, in cui hanno sede migliaia di imprese europee, oltre che
americane. E se i primi nomi che vengono alla mente sono isole come le Antille,
Antigua, Bahamas o Cayman, anche l'Europa è piena di paradisi fiscali. Non a
caso, essendo Londra un centro finanziario di primo piano, alcuni sono inglesi,
come le isole Guernsey e Jersey. Lo stesso si può dire del Lussemburgo e di
Andorra; infine, sebbene non figuri nella suddetta lista, la Svizzera, che da
sempre aiuta le corporations e i loro capi a mascherare buona parte dei loro
redditi. Nell'estate 2011 una delle più arcigne agenzie federali Usa, la
Homeland Security, stava indagando sulla maggiore banca di quel paese, la Ubs,
perché la sospettava di aver aiutato decine di migliaia di ricchi contribuenti
americani ad evadere il fisco. Da ultimo non si può trascurare che oltre alle
società che collocano la loro sede legale o i loro "veicoli" nelle
"isole del tesoro" senza formalmente violare alcuna legge, grazie
alla condiscendenza del parlamento del proprio paese, vi sono enormi quantità
di denaro illecito proveniente da diversi paesi occultate negli Stati Uniti,
nel Regno Unito e nelle isole Cayman. Il denaro illecito, secondo la
definizione di un istituto americano che ha pubblicato nel 2010 un rapporto
approfondito in merito, il Center for International Policy, è denaro che viene
illegalmente guadagnato, trasferito o utilizzato. Esso sfugge a ogni tassazione
poiché è detenuto da privati in "giurisdizioni segrete". L'istituto
in parola stima che attualmente esso ammonti a 20 trilioni di dollari; gli Usa,
il Regno Unito e le Cayman, considerati come singole giurisdizioni, ospitano
ciascuno 1,5 trilioni di dollari. Negli ultimi tredici anni questi depositi
segreti sono cresciuti al tasso fenomenale del 9% annuo. Supponendo che la metà
di quel denaro provenga dalla Ue, se ne trae che se esso pagasse una
patrimoniale del 5%, i pubblici bilanci incasserebbero per questa sola voce 500
miliardi di dollari, ossia circa 400 miliardi di euro. Se poi venisse per metà
sequestrato dalla Guardia di finanza, come meriterebbe, i problemi di bilancio
della Ue sarebbero di colpo risolti... La circostanza che le imposte siano
pagate soprattutto dalle classi meno abbienti, quelle medio-inferiori quanto a
reddito e ricchezza, con una sproporzione a loro danno che si è accentuata
negli ultimi vent'anni, in aggiunta al calo delle entrate in seguito alla
ridotta tassazione effettiva delle imprese e alla forte crescita del denaro
illecito, fa sì che i bilanci degli Stati europei siano effettivamente
sofferenti. Ma lo sono per cause che non corrispondono affatto, se non in
piccola parte, a quelle che vengono continuamente propinate all'opinione pubblica
come eccesso di generosità dello Stato sociale, per essere poi tradotte nella
necessità assoluta di tagliare la spesa sociale perché altrimenti i bilanci non
ce la fanno.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 135 | Posizione 2046-2068 |
R. Mi rifarei all'idea di contromovimento, elaborata
da Karl Polanyi nel secolo scorso per designare la grande trasformazione
dell'economia e del capitalismo intervenuta negli anni Trenta e Quaranta. Essa è
tuttora utile per cercare di capire quello che potrebbe succedere nel prossimo
futuro. Il contromovimento è formato da interventi, reazioni diffuse, riforme
che a un certo punto paiono indispensabili: sono tutti processi che emergono al
fine di riequilibrare il peso dell'irrefrenabile dispiegamento dell'economia -
che allora era liberale e adesso diciamo neoliberale - e della riduzione a
merce di cose che, già secondo Polanyi, non dovevano assolutamente essere
mercificate: vale a dire il lavoro, la terra e il denaro. Questo
contromovimento, che si oppone al movimento di eccessiva deregolazione
dell'economia - diceva Polanyi -, può prendere fondamentalmente due strade. La
strada di sinistra, ovvero di tipo socialdemocratico nel senso forte che il
termine aveva agli inizi del Novecento; non certo negli anni Ottanta o Novanta,
quando la socialdemocrazia è diventata una sorta di terza via non già del
movimento operaio, o delle riforme, bensì del capitalismo senza regole. L'altra
strada che le riforme, gli interventi, le reazioni, il voto potrebbero prendere
è quella che porta - l'ho già notato - a qualche forma di Stato autoritario: un
regime che, a prezzo di tagli incisivi non solo ai bilanci ma al processo
democratico, promette di risolvere dall'alto i problemi che assediano la vita
quotidiana di milioni di persone. In effetti, si tratta di un processo in
corso. Il contromovimento autoritario ha già inviato segnali importanti in
Europa, dove formazioni politiche di destra che usano messaggi terribilmente
semplificatori ("noi siamo in grado di risolvere i vostri problemi";
"il nemico è l'immigrato, il comunista" - in taluni casi qualcuno osa
dire perfino "l'ebreo"; "il nemico è chiunque non la pensi come
noi") sono unanimi nel sostenere che le colpe sono dei governi che hanno
speso troppo, e quindi bisogna "affamare la bestia" riducendo lo
Stato al minimo. È la posizione dei conservatori americani. Con tali messaggi
di spaventosa rozzezza culturale e politica, il contromovimento di destra,
regressivo e reazionario, che va dal Tea Party negli Usa ai Veri Finlandesi e
altre formazioni europee, tra cui il Fronte nazionale in Francia, il Partito
della libertà in Olanda, il Movimento per un'Ungheria migliore, la Lega Nord in
Italia, è politicamente visibile, e ha acquisito un considerevole peso
elettorale. Ha cioè trovato rapidamente, in pochi anni, una robusta
rappresentanza politica che lo sta portando ad avere un ruolo significativo nei
parlamenti della Ue. Basti pensare al caso italiano, ma anche all'Austria,
l'Olanda, la Finlandia, l'Ungheria, persino la Svezia, dove queste formazioni
ormai oscillano tra il 15 e il 20%. In generale, questo è il contromovimento
che, richiamandosi allo stato di necessità causato dalla crisi, si presenta con
una forma autoritaria e, quale che sia il nome di cui si veste, fascistizzante.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 138 | Posizione 2077-2112 |
D. Dunque nulla si muove a sinistra? R. Bisogna
riconoscere che il contromovimento progressista, socialdemocratico (liberal
negli Stati Uniti), che è sicuramente vasto e può contare su tante persone,
compresi numerosi studiosi e centri di ricerca, non ha la visibilità politica,
e meno che mai quella mediatica, del contromovimento di destra. Se si naviga in
internet, si incontrano dozzine di siti progressisti, vicini agli antichi
ideali socialdemocratici ed anche a nuove forme di liberalismo, ricchi di idee e
programmi che riflettono una concezione del socialismo appropriato al XXI
secolo. Ad onta di ciò, in termini di voti questa quota dell'elettorato è fuori
gara, perché non ha ancora trovato una formazione politica che in qualche modo
la rappresenti, né appare in grado di crearla da sola. Riassumendo: mentre è
assai probabile che, in termini di potenziali elettori, il contromovimento
progressista possa ormai contare su numeri ingenti, esso si presenta però
talmente frammentato che i numeri del contromovimento regressivo o reazionario,
forse minori in termini assoluti, finiscono per pesare di più perché hanno
trovato la strada dell'ingresso in politica attraverso formazioni che li
rappresentano nei parlamenti. D. Le manifestazioni di piazza contro i tagli allo
Stato sociale che hanno avuto luogo in molti paesi a partire dall'autunno 2010
- imponente è stata quella di Londra e altre città britanniche a fine novembre
2011 - non costituiscono segni di un contromovimento di tipo progressista? R.
Certamente sì. Non si erano mai viste a Londra tre o quattrocentomila persone
protestare contro i tagli alla sanità o l'aumento delle tasse universitarie.
Manifestazioni imponenti ci sono state anche in Italia, in Grecia, in Belgio e
in altri paesi, come l'Irlanda, dove i tagli allo Stato sociale sono stati
particolarmente pesanti. Senza dimenticare la Spagna, che tra i grandi paesi
europei è tra quelli che più ha pagato le dissennatezze della bolla
finanziaria, e il collasso delle banche con relativi salvataggi statali che ne è
seguito. Possiamo dunque dire che in questo momento i due volti del
contromovimento possibile - quello democratico e quello autoritario - risultano
ambedue presenti. Però i movimenti di destra hanno ottenuto nelle elezioni
politiche notevoli successi, che hanno portato il loro peso elettorale, in
alcuni casi, ad essere determinante nella formazione dei governi. Laddove,
sull'altro fronte, i movimenti progressisti appaiono ben lontani da simili
affermazioni parlamentari. In sostanza esistono già delle formazioni politiche
di destra le quali sanno raccogliere e tradurre in voti lo scontento, la
frustrazione, la rabbia dinanzi agli effetti negativi della globalizzazione
prima e poi ai tagli allo Stato sociale, ai bilanci austeri, agli interventi
che insistono solo sulla necessità di tagliare la spesa sociale. Ricordiamo che
dopo la Grecia sono andate al governo, nell'autunno del 2011, formazioni di
centro-destra anche in Portogallo e in Spagna, per di più con un voto
elettorale schiacciante. Viceversa, il contromovimento progressista sembra
stentare parecchio a trovare adeguate espressioni politiche, perché è evidente
che non può più riconoscersi nel vecchio labour post Tony Blair, meno ancora
nella socialdemocrazia tedesca, e neppure nei partiti socialisti della
Scandinavia. Al loro posto non si vede ancora quale formazione sia in grado di
tradurre in domanda politica, e alla fine in voti elettorali, queste
manifestazioni che hanno indubbiamente carattere progressista, nel senso che si
oppongono alla demolizione dello Stato sociale. Le poche formazioni politiche
che in astratto parrebbero avere la vocazione per raccogliere il messaggio e
tradurlo in un numero determinante di voti, quali il Pd in Italia, appaiono
tuttora decisamente al di sotto della capacità di farlo. Vi sono altresì
situazioni contingenti. Eventi quali la doppia tragedia del Giappone nel 2011
possono influire sull'uno o sull'altro aspetto del contromovimento. In
Germania, dopo lo tsunami e il dramma delle centrali nucleari in quel paese, i
Verdi hanno ottenuto un grande successo, raddoppiando i loro voti e superando
in alcuni Lander - l'abbiamo appena ricordato - addirittura il 25%. Di
conseguenza il governo tedesco ha avviato quasi subito un programma di graduale
dismissione delle centrali nucleari. Purtroppo si tratta di un effetto che non è
detto che duri. La paura del nucleare non basta per riformare il sistema
finanziario prima che affossi lo Stato sociale se non l'intera Ue. Resta il
fatto che nel caso dei Verdi il malcontento e la preoccupazione hanno trovato
una formazione politica capace di tradurli a breve termine in voti, in seggi da
deputato, in peso parlamentare.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 139 | Posizione 2113-2126 |
D. Pur essendocene occupati a più riprese, vorrei
qui richiamare ancora una volta funzione e ruolo degli intellettuali e dei
luoghi dell'elaborazione del pensiero. È corretto parlare di un'assenza nel
panorama italiano di luoghi di elaborazione di pensiero critico alternativo? R.
Abbiamo ricordato che negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei esistono
think tanks denominabili genericamente come socialdemocratici, i quali svolgono
un lavoro di prim'ordine per far emergere le storture dell'economia e della
politica contemporanee. Anche da noi ci sono alcuni siti di pensiero critico,
alimentati da un certo numero di economisti ed esperti di altre discipline.
Peraltro in essi raramente si va al di là della produzione di brevi articoli di
qualcuno che la pensa diversamente dal mainstream del pensiero economico.
Viceversa in altri paesi europei e negli Stati Uniti vengono prodotti di
continuo saggi approfonditi, molti scritti da esperti che lavorano in enti
istituzionali, i quali analizzano con un robusto taglio critico le cause della
crisi e argomentano perché mai se non facciamo qualcosa ci avviciniamo a
un'altra crisi gravissima, non solo economica ma anche sociale e politica. In
Germania esistono fondazioni di orientamento socialdemocratico che producono
sovente eccellenti rapporti per superare il capitalismo finanziario. Anche dal
Regno Unito arrivano proposte di grande interesse per un'economia di
transizione, anche industriale, capace di uscire dal binario forzato del
fossile o del nuclear- fossile e di assicurare una prosperità diffusa. Per
contro, nel nostro paese abbiamo sporadici studi della Banca d'Italia e di
qualche dipartimento universitario, complessivamente assai poco se paragonati
alle decine di centri che nei paesi sopra citati svolgono un vasto e intenso
lavoro di ricerca. Da lì provengono le speranze di un contromovimento
progressista, sebbene rispetto alle corazzate del pensiero neoliberale essi
abbiano una presa elettorale limitata.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 140 | Posizione 2127-2140 |
D. Vi sono difficoltà di computo e di comparazione
che sono intrinseche ai temi, ma che a volte possono venir fatte giocare
intenzionalmente per far apparire il modello sociale europeo più oneroso di
quanto effettivamente non sia. Si può parlare di un uso non sempre corretto
delle statistiche disponibili allo scopo di sostenere le politiche varate? R.
Sicuramente le statistiche sono usate per tentare di documentare la necessità
di bilanci pubblici austeri che taglino soprattutto dal lato delle uscite,
anziché ricercare nuove entrate. Vi sono casi clamorosi, come le ricorrenti
denunce del passivo del bilancio dell'Inps, dovuto in realtà alle decine di
miliardi di oneri assistenziali caricati impropriamente su di esso - dalle
pensioni sociali agli interventi a sostegno della famiglia, dai trattamenti
della disoccupazione a quelli degli invalidi civili - e non già alle casse
previdenziali in senso stretto. Casse che vedono la principale, e cioè quella
dei lavoratori dipendenti - gli stessi ai quali si vogliono tagliare le
pensioni - solidamente in attivo (per ben 10 miliardi, stando al bilancio di
previsione 2011, laddove la cassa dei dirigenti, ex Inpdai, risulta in passivo
per oltre 3 miliardi). Si veda anche il rilievo dato al rapporto tra il numero
di lavoratori in attività (che alimentano il flusso dei pagamenti
pensionistici) e quello di coloro che percepiscono le pensioni, rapporto che si
asserisce essere in via di peggioramento, laddove in realtà migliora da
parecchi anni. Per contro l'unica cifra che si vede circolare, sui quotidiani e
in tv, è l'eccesso della spesa, senza tener conto del fatto che - come ho già
rilevato - i pensionati italiani, non solo quelli Inps, pagano le imposte come
chiunque altro restituendo allo Stato una somma equivalente a 3 punti di Pil.
Ragion per cui il bilancio pubblico ricava da essi, a parte gli oneri impropri
e ad onta delle casse passive, una plusvalenza netta di oltre 25 miliardi
l'anno.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 141 | Posizione 2148-2152 |
sull'opinione pubblica, che un giorno sì e l'altro
pure vede pubblicato un articolo in cui si dice che tra un po' di anni le
pensioni saranno insostenibili perché sono eccessive, sicché bisogna andare in
direzione di un forte aumento dell'età pensionabile e, comunque, di un taglio
delle pensioni. E nel quale si afferma che bisogna aumentare i cosiddetti
coefficienti di invecchiamento perché ogni mese che si aggiunge alla speranza
di vita deve esser compensato da un allungamento dell'età pensionistica, oppure
da una riduzione dell'entità delle pensioni.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 143 | Posizione 2152-2180 |
Nel mese di aprile 2011 l'«Economist» dedicava la
copertina (col titolo 70 or bust!, ossia "In pensione a 70 anni o salta
tutto!") alla necessità di un aumento generalizzato dell'età pensionabile
entro pochi anni, per raggiungere come minimo i 70 anni per uomini e donne.
Affermazione, questa, fondata su statistiche che non stanno in piedi, del tipo:
"il lavoro manifatturiero ormai non esiste quasi più, tutti sono addetti
ai servizi e quindi si può lavorare tranquillamente fino a 70 anni". Il
che dimostra un'ignoranza perfino sprezzante di che cosa sia il lavoro, sia per
quanto riguarda la permanenza in molti paesi, compreso il nostro, di un ampio
settore industriale, sia per quanto riguarda la fatica, l'usura e il peso di
molti lavori nel settore dei servizi. Se uno avesse soltanto un'idea di come si
lavora nel settore alberghiero, nella ristorazione rapida, nelle aziende di
pulizia, nell'agroindustria e altri settori collegati, dovrebbe guardarsi dal
proporre un aumento a 70 anni dell'età pensionabile, basandosi sulla
convinzione che nei servizi tutti stiano seduti davanti a un computer e possano
rimanerci fino all'estrema vecchiaia. Queste manipolazioni esplicite
dell'opinione pubblica, a volte premeditate a volte no, rappresentano un
fattore di rilievo quando si cerca di rendere plausibili i tagli al bilancio e
in generale le politiche di austerità. Tuttavia un peso forse ancor più
rilevante lo hanno le cose non dette e gli argomenti recati da dilettanti per
caso. Ad esempio, negli articoli più o meno dotti sulla necessità di
ridimensionare a ogni costo il modello sociale europeo, non emerge quasi mai
che il deficit di bilancio della media dei paesi Ue - cresciuto di dieci volte
tra il 2007 e il 2009, dallo 0,7 a circa il 7% (parlo di deficit, non di
debito) - non è affatto dovuto all'aumento delle spese sociali. Le quali, in
quel periodo, sono state praticamente le stesse, e si mantengono stabili da
almeno una decina di anni. Il deficit suddetto è vistosamente aumentato perché
sui bilanci statali si è ripercossa la crisi delle banche, il cui onere per i
bilanci pubblici della Ue dal 2008 ad oggi, lo ricordo, viene stimato in circa
3 trilioni di euro. Pertanto affermare che i bilanci pubblici sono un disastro,
e imputare questo disastro a un eccesso di spesa sociale, è un'argomentazione o
incompetente o faziosa. Si veda la questione della crisi. Nei media non viene
detto nulla di men che superficiale sul collasso dei gruppi finanziari della
Ue, su come abbia pesato sui bilanci pubblici, e su come e quanto i
comportamenti di grandi banche europee, a partire da quelle tedesche, abbiano
contribuito allo squilibrio dei conti pubblici. A cominciare dai loro stessi
bilanci, perché esse hanno avuto bisogno di centinaia di miliardi di pubblico
denaro per compensare le cancellazioni di attivi indotte dai titoli tossici
acquistati in Usa dalle banche europee in enormi quantità fino al 2008, perché
stoltamente considerati a basso rischio; oppure fabbricati dalle stesse banche
direttamente in casa. Quando compare qualche riflessione non banale sulla crisi
di solito è confinata nelle pagine economiche dei quotidiani, o nei quotidiani
economici, che una persona comune o non legge o non capisce, essendo tali
pagine affatto illeggibili, piene di inutili anglicismi e di ragionamenti da
addetti ai lavori - quasi che l'economia fosse unicamente una questione
riservata a loro. Una analisi articolata di cosa sia stata la crisi, di quale
peso abbia avuto sui bilanci dell'Unione europea, oltre che su quelli degli
Stati Uniti, e perché dai bilanci disastrati dal sistema finanziario si debba
passare a una austerità volta a colpire anzitutto lo Stato sociale, è
praticamente introvabile. E così quel che non viene detto, o viene argomentato
in modo interessato o incompetente, finisce per essere ancora più importante
dell'uso disinvolto delle statistiche.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 144 | Posizione 2203-2207 |
Per unire la Ue non c'è bisogno di andare a cercare
le sue lontane radici culturali, che pure ci sono, la comunanza dei linguaggi o
altro. Esiste questo fattore primario che è lo Stato sociale. Esso può
rappresentare un grande fattore unificante e al tempo stesso un sostegno solido
dell'identità europea, perché ogni suo cittadino comprende il vantaggio di
disporre di un sistema pubblico avente la finalità etico- politica di
proteggere ciascuno dai principali rischi di un'ordinaria esistenza.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 145 | Posizione 2207-2214 |
Considero questo l'elemento di maggior peso, che
occorre assolutamente difendere. I costi dell'essere umano sono così elevati,
così imprevedibili per ogni individuo, così onerosi per le famiglie e per la
persona quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di
sopportarli sia assunta dalla società nel suo insieme, ovvero dallo Stato, come
uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore
né mediazioni al singolo individuo. È questa l'idea che, ad onta delle enormi
differenze di storia, cultura, linguaggio o geografia che li dividono, può far
crescere nei cittadini dell'Unione il senso profondo di far parte di un grande
progetto di incivilimento, di progresso sociale, che non ha paragoni nel mondo.
E porli in questo modo in condizione di affrontare le sfide che li attendono, a
cominciare dalle riforme: quelle eventuali del modello sociale, ma anche quelle
strutturali in campo economico e finanziario che appaiono ormai indispensabili
per rendere (forse dovrei dire di nuovo) democraticamente governabile, e
governata, l'Unione europea.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 150 | Posizione 2254-2300 |
R. Il lavoro flessibile è per diverse ragioni
un'espressione della flessibilità del movimento del capitale all'epoca della
finanziarizzazione, estesa non solo alle attività economiche tradizionali ma ad
ogni immaginabile attività umana. Abbiamo già detto che dagli anni Ottanta in
poi si sono accumulate con particolare rapidità masse colossali di capitali
finanziari - si pensi ai 60 trilioni di dollari gestiti dagli investitori
istituzionali che circolano nel mondo alla ricerca affannosa di rendimenti più
elevati della media. Al solo enunciare questa finalità ci si dovrebbe fermare a
riflettere, perché non si vede bene come tutti possano battere la media,
conseguire cioè rendimenti superiori ad essa. Resta il fatto che i trilioni di
capitali, in dollari o euro, che circolano in totale libertà per il mondo
perseguono appunto tale scopo: ottenere il rendimento più alto possibile, che
significa in genere più alto della media delle plusvalenze che si ottengono
dalle transazioni speculative aventi per oggetto azioni, obbligazioni, polizze
di credito, divise o derivati. La ricerca di rendimenti elevati estesa a tutto
il mondo richiede un capitale altamente mobile, ossia impone che esso si muova
con grande flessibilità. Un gestore di fondi o un trader devono essere in grado
di spostare milioni di dollari o di euro non appena scorgano sullo schermo del
loro computer la possibilità di conseguire un guadagno trasferendo capitali da
un impiego ad un altro, da un pacchetto azionario o un fondo d'investimento a
un altro. Un simile scambio si può fare ormai in pochi secondi perfino a mano,
ovvero in millesimi di secondo quando sia un computer a captare l'opportunità
di guadagno. Non si deve infatti trascurare che circa tre quarti delle
transazioni borsistiche giornaliere aventi origine negli Usa, e la metà di
quelle originate nella Ue, sono oggi interamente automatizzate. Questa ricerca
di flessibilità del capitale, allo scopo di trovare in giro per le piazze
finanziarie del mondo gli impieghi più redditizi, ha trascinato con sé la
necessità di imporre anche alla forza lavoro la massima flessibilità. A fronte
della estrema flessibilità del capitale, una grande impresa non può consentire
che proseguano determinate attività industriali o di servizio, con il lavoro
che le alimenta, quando esse appaiono avere rendimenti pari o inferiori alla
media del settore. Altrimenti può succedere che un azionista di peso - che può
essere un fondo comune di investimento, o magari un fondo pensione - decida di
ritirare dall'oggi al domani i capitali investiti nell'impresa stessa. Il
lavoro deve adeguarsi. Dal punto di vista della produzione capitalistica, ormai
estesa a tutto il mondo, esso viene considerato nulla più di una voce di costo.
In quest'ottica, la forza lavoro legata a produzioni di beni o di servizi che
appaiono offrire un rendimento non soddisfacente al fiume di capitali che
circola per il mondo deve essere di conseguenza abbandonata al più presto,
sostituita, tagliata, ridotta. Naturalmente può anche verificarsi il contrario,
e cioè che la forza lavoro debba essere ampliata per far fronte a un mercato
che cresce, grazie a un'iniziativa finanziaria o industriale che mostra di
avere successo. Ma poiché nulla è stabile nel mondo finanziarizzato, anche i
nuovi posti di lavoro debbono essere instabili. Le occupazioni atipiche sono
precisamente un modo per conseguire la massima flessibilità del lavoro, al fine
di rispecchiare in misura soddisfacente la necessaria flessibilità di impieghi
e di circolazione del capitale. Il lavoro a tempo indeterminato e a orario
pieno implica complicate procedure di licenziamento e comunque conflitti
sindacali e sociali. Viceversa, se si moltiplicano i contratti di breve durata,
sia pure regolari, o i lavori che uno svolge soltanto su chiamata, il problema è
superato. Infatti, quando convenga al datore di lavoro, basta non effettuare la
chiamata, oppure non rinnovare il contratto occasionale o di collaborazione (o
come si chiami nei diversi paesi che hanno inventato decine di tipi di lavoro
flessibile). I governi italiani si sono molto adoperati, a partire dagli anni
Novanta, nel moltiplicare le tipologie dei lavori flessibili, con i relativi
contratti atipici. Il cosiddetto "pacchetto Treu", la legge che
insieme ad altri provvedimenti ha introdotto il lavoro in affitto, è del 1997.
Il decreto attuativo della legge 30 è del settembre 2003: combinandosi con le
leggi precedenti, ha portato ad oltre 45 il numero di contratti atipici.
Peraltro anche Francia, Germania e Gran Bretagna e vari paesi minori hanno
moltiplicato in ogni modo la flessibilità dell'occupazione affinché la capacità
del lavoro di compiere le flessioni richieste - chiamiamola così - assomigli
sempre più alla rapidissima circolazione del capitale. E così il lavoro è stato
assoggettato a una forma di rinnovata mercificazione. Il trentennio successivo
alla seconda guerra mondiale fu un periodo di demercificazione del lavoro, la
cui epitome può leggersi nel primo articolo del rinnovato statuto
dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Nel lontano 1944 esso stabiliva
che "il lavoro non è una merce". La giurisprudenza e la legislazione
hanno seguito fino agli anni Ottanta questo indirizzo. Ma all'inizio di quegli
anni si è verificato un forte movimento di inversione ed è cominciato quello
che anche molti autori dell'Organizzazione internazionale del lavoro
definiscono un nuovo periodo di mercificazione del lavoro. Mercificare il
lavoro significa che esso può e deve essere comprato, venduto, scambiato,
affittato al pari di un qualsiasi arredo, una macchina, un utensile. È questo
il principio che ha caratterizzato la situazione e le cosiddette riforme del
mercato del lavoro, quali le leggi Hartz in Germania, soprattutto per quanto
riguarda i giovani, negli ultimi quindici, vent'anni. Siamo ormai, nel nostro
paese come pure in altri, dinanzi a un 75% di nuove assunzioni, ovvero di nuovi
avviamenti al lavoro, che avvengono ogni anno con contratti di breve durata,
agevolmente cancellabili o non rinnovabili, in sostanza affatto precari.
Insomma, l'intera scena del mondo del lavoro è stata sconvolta per poter
rendere i movimenti del lavoro il più possibile somiglianti ai movimenti del
capitale in circolazione nel mondo.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 152 | Posizione 2300-2327 |
D. Gli oneri che tale modo di organizzare il lavoro
impone hanno un peso, un significato e anche una durata diversa a seconda del
sistema lavorativo in cui il lavoratore dipendente è collocato; penso ad
esempio a lavori ad elevata qualificazione e autonomia intrinseca che da varie
forme di flessibilità potrebbero anche trarre vantaggio. R. Ciò in parte è
vero, poiché per un certo periodo, ad esempio quando si è in possesso di
capacità professionali che in quel momento appaiono scarse sul mercato del
lavoro in genere o in uno specifico settore produttivo, e per di più si è
giovani e non si fanno ancora progetti per il futuro, che appare lontano e
sterminato, la flessibilità può anche essere ben accetta. Un biologo, un
fisico, un informatico, che dispongano di approfondite conoscenze tecnologiche
e scientifiche che in quel momento capita siano ricercate dai laboratori e
dall'industria, possono trarre notevoli vantaggi dalla possibilità di
accumulare diverse esperienze, combinare differenti periodi lavorativi,
alternare periodi di lavoro e di studio. Ciò è possibile da un lato perché il
reddito che la persona riesce a realizzare per qualche tempo è comunque
relativamente elevato; dall'altro perché si tratta di un investimento
professionale che renderà in futuro. Va però subito precisato che questa
condizione può riguardare al massimo una ristretta quota dell'insieme dei
lavoratori flessibili. È un errore farne il paradigma dei nuovi tipi di lavoro,
perché se ne ricava una rappresentazione del tutto fuorviante. Per la gran
massa dei lavoratori flessibilità non significa altro se non contratti di breve
durata; reddito incerto; impossibilità di costruirsi un solido percorso
professionale, con tutti gli effetti negativi che ne conseguono: una vita sotto
la sferza della precarietà. Il tratto che accomuna gran parte dei lavori
flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che - a rigor di
dizionario - riassume due cose. Anzitutto l'essere in varia guisa, codesti
lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei, soggetti a revoca,
senza garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l'etimo del
termine "precario", sono lavori che bisogna pregare per ottenere. A
volte in senso figurato, non di rado in senso materiale: una persona con un
contratto di sei mesi prossimo a scadere e due figli da tirar su finisce per
pregare letteralmente il datore di lavoro di rinnovarle il contratto. Il senso
della precarietà dell'occupazione, la consapevolezza che, per quanto bene uno
svolga il proprio lavoro, la durata e la qualità della sua occupazione non ne
saranno quasi mai positivamente influenzate, più l'umiliazione di dover pregare
qualcuno per continuare a lavorare, rientrano tra gli oneri che gli addetti a
lavori flessibili collocano non solo tra i più pesanti, ma pure tra i più
sgradevoli. In Italia come negli altri paesi avanzati, inoltre, tanto la
flessibilità quanto gli oneri che ne derivano non colpiscono in modo
differenziale soltanto i vari sistemi lavorativi, che si distinguono per il
grado di qualificazione che richiedono, di razionalizzazione del lavoro, di
autonomia consentita al prestatore d'opera. Entro ciascun sistema, la
probabilità che il solo lavoro che si riesce a trovare sia un lavoro
flessibile, che i suoi costi personali siano maggiormente gravosi, estesi e
durevoli, è assai più elevata per le donne; per i giovani in cerca di
occupazione sotto i 25 anni; per gli occupati che superano i 40-45 anni; per
chi ha un titolo di studio basso; per chi vive in zone meno sviluppate del
resto del paese; infine per gli immigrati. D'altra parte, non è una svista il
fatto che l'Ilo collochi il lavoro atipico entro l'economia informale.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 158 | Posizione 2387-2414 |
R. In Italia, ma anche in altri paesi - basti
pensare agli Stati Uniti, la terra delle opportunità, dell'american dream, dove
non solo la mobilità sociale è sempre stata inferiore a quanto comunemente si
creda, ma è oggi particolarmente bassa - la mobilità sociale nell'ultimo
decennio si è ulteriormente ridotta. Le poche ricerche di cui si dispone dicono
che la probabilità di trascorrere tutta la vita nella classe in cui si è nati è
molto elevata: più del 40% di coloro che nascono in una determinata classe è
destinato a restarvi per sempre, e un certo numero di appartenenti alle classi
medie arriva anche a scendere nella scala sociale. Sarà qui opportuno
distinguere tra mobilità diretta e mobilità indiretta, che i sociologi chiamano
mobilità netta e mobilità lorda. La mobilità indiretta (lorda) è la mobilità di
masse di persone che in forza dello sviluppo economico di un paese, piuttosto
che per iniziativa personale, passano da una posizione sociale a un'altra, dove
hanno un reddito, un peso politico e un prestigio superiore a quello che
avevano in partenza. È quanto è avvenuto in misura notevole nell'Italia degli
anni Cinquanta e Sessanta. Milioni di braccianti, di contadini, di addetti a
lavori manuali non qualificati sono diventati nel giro di pochi anni operai,
tecnici, commessi, addetti a vari tipi di servizi. I braccianti, ad esempio,
che negli anni Cinquanta erano ancora milioni in Italia e lavoravano reclutati
giorno per giorno dai caporali, in pochi anni sono scomparsi e sono diventati
operai dell'industria. Oppure sono stati assunti da aziende agricole moderne, o
sono diventati artigiani. Alla fine degli anni Ottanta, più del 60% degli
italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni non faceva più parte della classe
dei propri genitori ed aveva sperimentato un qualche tipo di mobilità sociale
(sebbene molto spesso di breve raggio, cioè tra classi contigue). Si è trattato
di un processo che ha indubbiamente ridisegnato su vasta scala le classi
sociali e la loro composizione. Però è diverso dalla mobilità sociale cui ci si
riferisce quando si pensa all'iniziativa personale che, fondata sul talento,
sul lavoro duro, e magari su un po' di fortuna, permette di passare da operaio
a imprenditore, da impiegato a dirigente, da commessa a insegnante di liceo.
Quest'ultimo tipo di mobilità, definibile come mobilità diretta (o netta), ha
subito un notevole rallentamento dopo gli anni Settanta e Ottanta. Fino ad
allora il bracciante che diventava operaio riusciva a far studiare i figli i
quali per tal via diventavano insegnanti. Oggi quegli insegnanti, giunti alla
mezza età, devono fare i conti con un mercato del lavoro che rende incerta una
ulteriore ascesa dei figli nella piramide sociale. Non solo: arriva a mettere
in dubbio perfino che quei figli possano mantenere la posizione sociale
raggiunta dalla famiglia d'origine. Questo avviene perché l'economia si è
chiusa, si è contratto il mercato del lavoro, ridotta la domanda di professioni
specializzate, e lo Stato si è trasformato da datore di lavoro di ultima istanza
a licenziatore di prima istanza. Questo secondo tipo di mobilità consente di
ragionare sulla fluidità sociale, sull'apertura di una società. Sotto questo
aspetto l'Italia, al pari degli Stati Uniti, rivela un grado piuttosto alto di
chiusura, misurata comparando la possibilità di soggetti che provengono da
classi sociali differenti di arrivare ad una posizione più elevata. Siamo di
fronte a società rigide, piuttosto che fluide. Le classi più avvantaggiate
hanno accresciuto i propri vantaggi, mentre coloro che ne avevano già meno in
partenza hanno visto accrescersi le distanze che li separano dall'alto.
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La lotta di classe dopo la lotta di classe (Luciano
Gallino)
pagina 167 | Posizione 2538-2550 |
C'è poi il caso - più comune in alcune regioni e
meno in altre, ma che comunque tocca una quota di popolazione piuttosto vasta -
di chi da operaio è diventato piccolo imprenditore e che a causa della crisi,
del taglio delle commesse, della restrizione dei canali del prestito si trova
sull'orlo del fallimento o ha già dovuto dichiararlo. La situazione peggiore è
quella di un piccolo imprenditore che ha lavorato da impiegato o da operaio ed è
poi riuscito a mettere in piedi un'officina, un centro di servizi, un'impresa
di costruzioni, e deve rendersi conto di essere costretto a licenziare i propri
dipendenti perché l'impresa non regge più. Proprio per questo motivo vi sono
state, soprattutto nel Nord-est del nostro paese, alcune decine di suicidi, il
cui triste conto va aggiornato di continuo. Il suicidio è una resa dinanzi a
qualcosa di incommensurabile, qualcosa che trasmette un senso insopportabile di
sconfitta. Essere diventato imprenditore, da operaio che uno era, aver dato
lavoro a molti compagni, o a giovani pieni di speranze, ed esser costretto a
licenziare per gli effetti della crisi, è una situazione difficile da
tollerare. Per molti è peggio che restare disoccupati. Qui, tutt'insieme, uno
prova l'umiliazione dinanzi alla famiglia, il senso di sconfitta, il dolore di
dover dire ai propri compagni dipendenti "non ce la faccio più a pagarti
lo stipendio, devo licenziarti", "devo chiudere la fabbrica",
"devo vendere". Alcuni fra questi imprenditori ex operai non hanno
retto e si sono tolti la vita. È uno dei segni tangibili della mobilità sociale
che si interrompe, non solo come speranza per i figli, ma nel corso della
propria stessa esistenza.
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